Ricordo ancora molto bene il giorno di Santo Stefano del 1989. Un ricordo vivo, televisivo, monopolizzato dal media che all’epoca ci educeva in via esclusiva sulle cose del mondo, in un modo che oggi appare così inusuale, fuori dal tempo, in tutti i sensi: con un giorno di ritardo. Sembra trascorsa un’eternità, ma sono solo trent’anni. In attesa che avesse inizio un pranzo familiare, ci si era raccolti attorno al caminetto, nel soggiorno. Giornata grigia e fredda, sullo schermo del televisore instabilmente a colori di casa mia nonna passa la sigla del tg1, colta distrattamente, ma bastano le prime parole del conduttore per capire la pregnanza storica del momento: ieri, giorno di Natale del 1989, Nicolae Ceaușescu, segretario generale del partito comunista rumeno e presidente di quel paese lontano, è stato fucilato insieme a sua moglie Elena, dopo un breve processo ordito dai vertici militari non più fedeli alla coppia presidenziale.
Le immagini, prima del processo sommario, poi di quei corpi che appaiono sfigurati nella polvere dei proiettili. Nicolae è caduto in ginocchio, il busto riverso all’indietro, il viso integro perché questo fu chiesto al plotone, preservarlo per poi mostrarlo, sembra guardare la Storia che lo ha appena giudicato, e quello sguardo pietrificato ipnotizza il mio ricordo, quello di un bambino di 9 anni, fossilizzandolo. Credo che molti della mia generazione abbiano ben impresso in mente quel momento. Io, personalmente, lo conservo in tutta la sua vivida durezza, al pari del peso che nel mio album delle reminiscenze ebbero le immagini di quella fine d’anno. Frame di un film sulla fine non del mondo, ma di un mondo, geopoliticamente connotato.
Trenta è il numero della ricorrenza. Il 25 dicembre di trent’anni fa si concludeva il trentennio di governo di un uomo molto contraddittorio, un principe rosso caduto nel baratro della paranoia di controllo di tutto e tutti, finiva la saga di potere di un semplice funzionario di partito, venuto da una provincia marginale e capace di diventare, per circostanze e indiscutibili abilità personali, Conducător di un popolo vittima di un’idea di socializzazione interpretata in modo perverso, centrata su un sistema di potere divenuto ben presto vertice dinastico (di chiara ispirazione nordcoreana, paese a cui Nicolae era molto legato).
Una dinamica che marca la differenza col resto del blocco socialista, verso cui Ceaușescu aveva voluto tracciare – pur sotto l’ombrello protettivo del patto di Varsavia – una sorta di terza via che gli era valsa il riconoscimento occidentale (ma senza i livelli di autonomia, progresso e sostanziale benessere che avevano caratterizzato, per esempio, la via jugoslava); e che gli aveva permesso di sviluppare una via personalissima al potere, fatta di culto della personalità, sfarzo, megalomania sua (il palazzo presidenziale da lui voluto, a Bucarest, è il secondo più grande del mondo, dopo il Pentagono) e dei suoi congiunti (Elena pretendeva di essere considerata letteralmente la “madre di tutti i rumeni”, i figli Valentin, Zoia e Nicu erano viziati e violenti, come testimoniano per esempio le note vicende che legarono quest’ultimo alla campionessa di ginnastica artistica Nadia Comăneci).
Il tutto mentre questa “via alternativa” portava al paradosso di un leader accolto nei migliori salotti dell’Europa “libera” ma a capo di un paese sempre più isolato e povero, più sulla scia del destino albanese che di quello sovietico; e che in quell’ultimo decennio aveva avuto i suoi grandi meriti soprattutto, e forse solamente, in campo sportivo, con le prodezze della Comăneci, più volte iridata a livello olimpico, e con la vittoria in Coppa Campioni 1986 della Steaua Bucarest – prima squadra dell’est a riuscirci – di campioni quali Miograd Belodedici, Marius Lăcătuș e soprattuto di Helmuth Duckadam, mitico portiere capace di parare quattro rigori nella finale disputata contro il Barcellona.
Il giorno di Natale di trent’anni fa si concluse dunque drammaticamente – e discutibilmente, sotto un profilo giuridico – una vicenda che valeva una tessera importante in quell’effetto domino che seguì il crollo del Muro di Berlino, avvenuto un mese e mezzo prima. Quella che oggi viene chiamata in modo un po’ enfatico “Rivoluzione Romena” era scoppiata qualche settimana prima a Timisoara, dove le proteste erano state represse nel sangue. Gli studi storici hanno avuto modo di constatare come quella che fu fatta passare per insurrezione, e che in tal guisa dilagò in tutto il paese fino al suo tragico epilogo, in realtà fosse nata come una richiesta popolare di riforma del sistema socialista, e non di suo abbattimento. Ma l’occasione era troppo ghiotta per accelerare il processo di dissoluzione del socialismo reale, tanto è vero che la regia degli eventi che ne seguirono fu condotta dall’opposizione interna col decisivo supporto dei servizi segreti occidentali.
Quelle manifestazioni di piazza si trasformarono nel più perfetto dei colpi di Stato: gran parte di coloro – prevalentemente comandi militari – che fino a quel momento avevano costituito l’ossatura del regime, trovarono l’occasione di riciclarsi nel nuovo corso della democrazia rumena, in cui furono capaci di offuscare anche le istanze più sinceramente democratiche. Negli anni successivi, che hanno visto il paese incamminarsi sulla strada dell’integrazione europea, la “nuova” classe dirigente ha gestito il nuovo corso dell’economia di libero mercato aprendo sì la nazione a investimenti infrastrutturali, ma alimentando allo stesso tempo corruzione e malaffare, creando oligarchie predatrici delle vecchie proprietà di Stato e generando una profonda diseguaglianza sociale (fenomeno emerso comunemente dopo la fine del comunismo nei paesi dell’Europa orientale): problematiche che ancora recentemente hanno portato il popolo rumeno alla protesta di piazza, alcuni spinti dalla necessità di completare quella “rivoluzione” evidentemente monca, altri animati da un sentimento nostalgico per i tempi che furono, in cui la struttura statale garantiva pochissimo, ma garantiva a tutti.
Ad ogni modo, quel 25 dicembre del 1989 resta una data importante anche per noi italiani: senza di essa, non sarebbe cominciata quella grande migrazione che ha portato centinaia di migliaia di cittadini rumeni a emigrare nel nostro paese, divenendo di fatto la comunità straniera più numerosa su suolo italiano (più di un milione di residenti), oggi pienamente integrata nel contesto culturale e produttivo.
Chiudo suggerendo, sempre per alimentare la memoria storica, due film significativi per capire meglio il personaggio Ceaușescu e il clima morale negli anni conclusivi: il primo è un documentario, Nicolae Ceaușescu: un’autobriografia (2010),in cui il regista Andrej Ujica, in tre ore solide di lavoro, cerca di raccontare questa figura senza manipolazioni esterne, ma solo attraverso immagini di repertorio (facilmente reperibile su youtube); il secondo è un lungometraggio drammatico, 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2007, incentrato sul problema degli aborti clandestini, molto diffusi nel paese perché fortemente repressiva era la politica del governo su questo tema.
Trent’anni fa, dunque, le cruente immagini di una fucilazione: che aprirono un nuovo corso per la storia rumena ed europea, e rimasero impresse nella memoria di un’intera generazione che si affacciava alla vita proprio nel momento della cesura tra un secolo che si manifestò “breve” e un altro che finora si è manifestato in tutta la sua complessità.