A volte i ricordi assumono una funzione terapeutica, specialmente quando il presente non ci aiuta a trovare le risposte giuste

EDITORIALE – Non è raro tra noi persone di una certa età ritrovarci a parlare dei cambiamenti radicali che si sono verificati negli ultimi 50/60 anni nella nostra comunità.

Spesso diciamo: “Erano altri tempi!”. “Si stava meglio quando si stava peggio”.

A me capita spesso di pensare al passato. Più vado avanti negli anni più i ricordi affiorano alla mente in maniera nitida, contornandosi di particolari che da tempo non ricordavo più.

Vivevo nel quartiere Casaletto, vicino a un grande spiazzo denominato San Vito, dove vi erano alberi dalle folte chiome che donavano ombra in ogni momento della giornata. Era lì che trascorrevo le mie giornate insieme a tanti bambini, che provenivano anche da altri rioni.

Ricordo i nostri giochi, che si svolgevano prevalentemente all’aperto e con giocattoli inventati e costruiti da noi bambini. Spesso bastavano un carboncino o un gessetto, delle pietruzze, dei tappi di bottiglia, dei bottoni, dei cerchioni di bicicletta…ed ecco assicurato il divertimento con il gioco della campana, del battimuro, della tappa, della corsa con il cerchio.

Come dimenticare il vicinato di una volta? I vicoli, a differenza di oggi, erano animati dal mattino alla sera. Davanti all’ingresso delle case: le nostre mamme lavoravano a maglia, ricamavano e conversavano piacevolmente, mentre noi bambini giocavamo. Tra le famiglie: tanta solidarietà, che si traduceva in sostegno morale e materiale.

Indelebili nella mia mente sono anche i ricordi delle abitudini relative al cibo, in particolare all’importanza di farne uso in maniera rispettosa e parsimoniosa. Nella cucina di mia nonna troneggiava una grande cassapanca, chiusa a chiave, dove venivano conservate tutte le provviste alimentari. Solo alla nonna era consentito aprirla con la chiave che portava sempre appesa alla cintura della gonna. Quando andavamo a trovarla attendevamo pazientemente che suonassero le campane per i vespri: solo allora potevamo fare merenda.

Qualche tempo fa, rovistando in un cassetto, ho ritrovato  alcune foto antiche che ritraggono scorci di Lauria. Mi sono emozionata nel rivedere le cappelle che sorgevano nel centro storico del rione superiore, oggi tutte demolite.

Ricordo la cappella di San Vito, sull’omonima collina, nel rione Casaletto. Era lì, davanti a quella chiesetta, che trascorrevo interi pomeriggi.

Non potrò mai dimenticare l’atmosfera di pace e di serenità che si respirava nella piccola chiesa di San Francesco, nel Largo Giardino, proprietà della famiglia Manfredelli, donata alla Chiesa e poi venduta ad un privato che vi ha costruito due locali per uso commerciale. In piazza Viceconti si ergeva la bella chiesa di Santa Maria dei Martiri del XVI secolo, che sostituì la Chiesa Madre dopo l’incendio del 1806. Poco distanti la cappella dell’Annunziata e di S. Elia.

La foto che più mi ha emozionata è quella che ritrae l’antichissima Porta Fontana, le cui origini risalgono al Medioevo. Consentiva l’accesso all’abitato superiore di Lauria. Era compresa tra la cappella dell’Annunziata e il palazzo con gli archi ancora esistente. Con al centro lo stemma di Lauria, rappresentava il simbolo del paese. Fu demolita, insieme alla cappella, negli anni cinquanta per consentire l’allargamento della strada e la costruzione di nuovi edifici. Era quella un’epoca nella quale si dava sempre più importanza alle comodità e agli agi di una cultura cementizia che non teneva conto della conservazione e del valore di opere antiche, che ricordavano le nostre origini e la nostra storia.