Addio a Giampaolo Pansa, maestro di giornalismo che mi fece comprendere l’ironia

EDITORIALE – Se ho scoperto l’attitudine a svolgere il mestiere che ancora oggi (provo) a fare, in gran parte lo devo a maestri del giornalismo quale era Giampaolo Pansa.

Frequentavo le scuole medie e nel portagiornali di casa notavo queste pile de “L’Espresso” in bella mostra. All’epoca le rubriche erano tante e tutte interessanti, variavano dall’ “Anti Italiano” di Giorgio Bocca fino alla “Satira Preventiva” di Michele Serra, ma il mio interesse si focalizzò subito sul “Bestiario”, uno spazio di approfondimento in cui Pansa dava sfogo libero a tutto il suo essere ironico e il più delle volte controcorrente.

Forse capii il valore dell’ironia e della sua non semplice arte proprio grazie a lui, il fatto di poter essere anche dei “rompiscatole”, come egli stesso amava definirsi, ma di esserlo con classe innata da poter risultare anche il più delle volte comprensibile anche a chi non la pensa come te.

La sua firma è legata ai capitoli più importanti della storia italiana, a cominciare dal disastro del Vajont, raccontata per il quotidiano diretto da Giulio de Benedetti. Sul Giorno di Italo Pietra dedicò i suoi articoli alle trasformazioni dell’Italia negli anni del boom, con le contraddizioni del passaggio da Paese contadino a realtà industriale. Tornato alla Stampa nel 1969 fu incaricato da Alberto Ronchey di scrivere della strage di piazza Fontana. E pochi anni più tardi, al Corriere della Sera, firmò insieme a Gaetano Scardocchia l’inchiesta che contribuì a svelare lo scandalo Lockeed.

Pansa negli anni 70

Nel 1977 l’approdo a Repubblica e l’inizio del suo lungo sodalizio professionale e umano con Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo. Nel 1978 Pansa assume la vicedirezione del quotidiano, affiancando Scalfari nelle scelte più difficili imposte dalla stagione del terrorismo.

Oltre che autore di straordinari reportage, Pansa fu inventore di uno stile giornalistico che ha fatto scuola. “Giornalista dimezzato”, “Dalemoni” (sull’intesa tra D’Alema e Berlusconi), “Parolaio rosso” (Bertinotti), “Balena bianca” (la Democrazia Cristiana) sono soltanto alcuni lemmi di un suo personalissimo lessico con cui ha svecchiato la cronaca politica italiana, scrutata con il suo leggendario binocolo ai congressi di partito.

Pochi come Pansa hanno avuto il passo del rubrichista: per l’Espresso nel 1984 – direttore Giovanni Valentini – ideò la fortunata rubrica “Chi sale e chi scende” (che ancora oggi vanta molti imitatori) e nel 1987 esordì su Panorama con il Bestiario (direttore Claudio Rinaldi), poi trasferito su l’Espresso. Anche i titoli dei suoi saggi restituiscono la verve polemica, rivolta soprattutto al mondo dei giornali: “Comprati e venduti”. “Carte false”. “Lo sfascio”. “Il malloppo”. “Carta straccia”.

La verità è che per un giovane che voleva innamorarsi del mestiere giornalistico, leggere Pansa era una tappa obbligata, se non necessaria e appassionata. Un modo di narrare che ti apriva scenari nuovi nell’arte dello scrivere e del parlare di politica, toccando i tasti giusti e andando al centro delle questioni armati di bastone e carota.

Fu Giampaolo Pansa a descrivere il tramonto di Craxi, quattro anni dopo, al congresso di Bari, il discorso della canottiera zuppa di sudore inquadrata dal binocolo sotto la camicia bianca che diventa il simbolo dell’afflosciamento della leadership craxiana.

E poi ci fu Enrico Berlinguer. A Pansa sul “Corriere” concedette  l’intervista più importante. Alla vigilia delle elezioni politiche del 21 giugno 1976, caratterizzate dal miraggio del sorpasso sulla Dc, il segretario del Pci dice al giornalista di sentirsi «più sicuro» sotto la Nato. Le reazioni sono europee e mondiali, nella spartizione di Yalta è una svolta spericolata, destinata infatti alla sconfitta, come ricorda oggi il Direttore de L’Espresso  Marco Damilano.

La verità è che il coraggio lo si dimostra fino alla fine, e Pansa ne ebbe la coerenza anche quando negli ultimi anni, pro o contro, da qualunque parte si stia, cominciò il suo lungo viaggio attraverso le zone oscure del partigianato.

Il primo titolo di successo fu “Il Sangue dei vinti” che suscitò polemiche non lievi: nelle vesti di aguzzini e seviziatori, tra il maggio del 1945 e la fine del 1946, s’incontrano alcuni dei partigiani che avevano liberato il Paese da nazisti e fascisti. Storie di stupri e di torture, di cadaveri irrisi e violati, di fucilazioni di massa e crimini gratuiti. «Dopo tante pagine scritte sulla Resistenza e sulle atrocità commesse dai Repubblichini – disse Pansa a Repubblica – mi è sembrato giusto vedere l’altra faccia della medaglia. Ossia quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica sociale».

Alla passione storiografica Pansa affiancava la felicità di una scrittura narrativa di rara limpidezza: il libro divenne subito un bestseller, segnando l’avvio di un “ciclo di vinti” dedicato alle “efferatezze” della Resistenza: una serie di libri destinati a scalare le classifiche dei più venduti. Intorno alle sue opere nacque un accesso dibattito.

Oggi, a 84 anni se ne va un Gigante del giornalismo, di quello mai domo e che sa aprirsi a nuovi metodi, lasciando orgoglio o “tirate di giacca” altrove. E’un racconto ironico che forse oggi manca, nella spietatezza di voler dire la verità, ma non avendone la pretesa di farla sua, perché Giampaolo Pansa era così, tanto abile, il più delle volte, da non prendersi troppo sul serio neppure lui, consapevole del fatto che nessuna opinione poteva essere così decisiva da stravolgere animi o coscienze. Quello possono farlo solo il carisma e i fatti…ma quelli veri e raccontati bene, come lui sapeva fare.