Che cosa ci ha ricordato Rocco Papaleo a noi che siamo andati via, per poi tornare

Da lucano, e in particolare da lauriota, ho atteso con impazienza l’uscita nelle sale dell’ultimo film di Rocco Papaleo, “Scordato”. Un lavoro che è stato in gran parte girato nella nostra comunità, e infatti a differenza delle altre sue performance cinematografiche – che seguiamo sempre con una sorta di familismo amorale – di questa occasione ricorderemo la curiosità di quei giorni, della troupe e degli attori, della corsa alla comparsata, io personalmente anche di una bella grigliata in compagnia dell’amico Giuseppe Ragone.

Non mi soffermo sul dato tecnico del film, quello tocca ai critici di professione, mi limito a osservare la bravura di Giorgia alla prima prova attoriale, molto a suo agio, e forse qualche intoppo nella sceneggiatura. Ma ciò non conta.

Conta quello che il film ha saputo smuovere, sul lato emotivo, nel personale rapporto di ciascuno con la propria comunità di origine. Questione che riguarda chiunque ha un paese da cui va, e a cui torna. Questione acuita per quelli come me, travolti dalla fenomenologia sensibile delle immagini di quei luoghi in cui siamo cresciuti, da cui siamo scappati, e in cui a volte siamo tornati.

Lontano da ogni rappresentazione oleografica, Papaleo ci ricorda quanta complessità del vivere ci sia in provincia: oltre a essere ormai simulacri dell’assenza, per chi li conosce bene e non ha smesso di viverli seppur sotto diverse modalità i paesi continuano a manifestarsi come luoghi pieni di veleno, di apatia e lontananza, in cui va in scena una grande recita del camuffamento imposta dagli spazi ristretti, teatro dell’ipocrisia in cui si abbindola lo spettatore urbanizzato con formule rassicuranti e consolatorie che invocano “semplicità”, “vicinanza”. I paesi sono il luogo in cui si rovesciano le narrazioni: nonostante ci si parli poco e ci si guardi sempre con sospetto. Con l’avvento dello spopolamento, poi, è diventato ancora più difficile trovare qualcuno a cui non rivolgere la parola.

Eppure, puoi non provare qualcosa per un luogo così gradevole agli occhi, sebbene pieno di tutte le sue imperfezioni umane? Come si fa a non sentire l’anima in sussulto, quando Orlando ritorna in macchina, sbircia la maestosità di San Giacomo, dalla cui piazza il regista ci regala una panoramica di quel verde infinito di valle e monti che è il controcanto naturale a tutto ciò che siamo andati a cercare altrove? Probabilmente, più di chi li abita, sono le percezioni che ci donano certi panorami a ripagarci delle mancanze che, inevitabilmente, avvertiamo vivendo qui.

Vive un Orlando in ognuno di noi. È vissuto in me e nei miei anni all’estero, con quell’estasi da emancipazione, da consapevolezza di non aver più bisogno di rientrare, eppure dominava un inconscio che non era mai riuscito a chiudere la porta di casa dietro di sé. E che periodicamente imboccava la strada del ritorno per riempire lacune esistenziali. Proprio come quel pezzo che “incastrato male, col tempo fa storcere il mobile”. Poi sono tornato davvero, fottuto dalla nostalgia, e sono cominciati i dilemmi: cosa sono venuto a fare? Cosa faccio qui? Ne vale davvero la pena?

Questo Orlando alla fine non ce lo dice, ed è evidente che la risposta ce la dobbiamo dare da soli; mica ce la possono suggerire i nostri compaesani, perché è pur sempre vero quello che diceva Franco Arminio: nei paesi se ne sono andati tutti, soprattutto quelli che sono rimasti.

E allora “Scordato” di Rocco Papaleo, opera in parte autobiografica, diventa una biografia collettiva di tutta una generazione meridionale: il senso del riprendere un cammino a ritroso, e con esso un discorso lasciato in sospeso. Tornare a parlare ai nostri luoghi, o perlomeno a osservarli con occhi giocoforza diversi. Per coglierne le contraddizioni, le amarezze, le screpolature del tempo, ma anche quel po’ di tenerezza che si portano dietro.

Fosse anche per un’ultima connessione crepuscolare.

Pubblicità