EDITORIALE – Nell’attuale società non si può non prendere atto dei cambiamenti riguardanti l’universo femminile in termini di emancipazione dei costumi, di conquiste e di diritti, di rivendicazione di ruoli all’interno della famiglia e in ambito lavorativo.
Oggi le donne possono ricoprire cariche importanti nei vari ambiti sociali, culturali e politici, anche se ancora la presenza maschile è predominante.
Le donne, per anni, sono state considerate inferiori agli uomini: la svolta è arrivata nel 1946 quando poterono esercitare per la prima volta il diritto al voto.
Vari ricordi mi confermano la disparità esistente nel passato tra uomo e donna.
Circolava un detto: “Auguri e…figli maschi!”. E’ un pensiero augurale usato anche oggi, ma con una leggera nota di ironia e di leggerezza. Nel passato, invece, era molto sentito e rivolto ai novelli sposi con convinzione: la nascita di un maschietto era certamente più gradita e motivo di orgoglio per una coppia.
Quando nasceva una femmina si era soliti dire “mala nuttata e figlia fimmina”.
Alla donna spettavano tutti i lavori domestici e la cura dei figli. Non era facile per la donna moglie/madre provvedere a tutte le esigenze familiari con un solo reddito mensile, fare fronte a tutte le necessità che comportavano i figli in crescita, quasi sempre numerosi.
La donna svolgeva un compito da grande stratega per fare quadrare i conti: indumenti di abbigliamento e calzature passavano dai figli più grandi a quelli più piccoli (c’era l’abitudine di rivoltare i cappotti); si facevano, sempre in economia, grandi provviste per l’inverno, quali conserve di pomodori, confetture di marmellata, fichi secchi e noci, farina di grano e di granoturco; per molte famiglie la carne era un lusso, che si concedevano solo in particolari ricorrenze e festività.
L’uomo provvedeva esclusivamente a svolgere un lavoro che consentisse il sostentamento economico della famiglia.
Quando veniva a mancare il marito/padre, era una vera e propria tragedia: la famiglia andava incontro ad una vita di grandi privazioni e sacrifici: non vi erano norme che disponevano un trattamento pensionistico a favore della moglie e dei figli.
Come accade oggi, anche nel passato la donna spesso subiva atti di prevaricazione e di violenza da parte del marito/padrone, ma, non avendo una propria autonomia economica, era obbligata all’accettazione di ogni sopruso: la società maschilista non le permetteva alcuna forma di ribellione, né di rivendicazione di diritti che non le erano riconosciuti.
Esistevano, come oggi, forme di violenza fisica e psicologica.
Forse ancora più grave di quella fisica era ed è la violenza psicologica, che si manifesta con parole e comportamenti subdoli e devastanti, quali le offese, le critiche, la mancanza di rispetto, la svalutazione in forma ironica, la pressione sessuale, la menzogna, le minacce. Il tutto nascosto sotto atteggiamenti spesso affettuosi che confondono la donna fino ad annullare completamente la personalità.
Tali violenze, nel passato, non sfociavano in femminicidi solo perché la donna, priva di indipendenza economica, non poteva rivendicare la sua libertà ed era costretta a sopportare in silenzio gli abusi del marito violento e prevaricatore.
Oggi l’emancipazione della donna, il suo inserimento nel mondo del lavoro hanno indebolito le sicurezze dell’uomo che si sente minacciato nella sua integrità economica. Non si è superata la concezione atavica che porta a considerare la donna soggetto da dominare e forse anche da amare, ma in maniera anomala e possessiva.
Amare per alcuni uomini diventa sinonimo di legame morboso, esclusivo, egoistico. L’amore vero, invece, è un sentimento che si fonda su altri principi, quali la condivisione, l’altruismo, la promozione del benessere e della felicità dell’altro/a.
“Se non puoi essere mia non sarai più di nessuno”, questo pensa l’uomo che vive un amore malato, causa di omicidi efferati, spesso di una crudeltà inaudita, che stroncano la vita di giovani donne, colpevoli solo di non amare più quell’uomo violento e di decidere di dare una svolta nuova alla loro esistenza.
Il fenomeno non è legato a disagi sociali: non si verifica esclusivamente in ambienti degradati. Molti femminicidi avvengono all’interno di nuclei familiari apparentemente normali e di buon livello culturale. A volte si risolvono in omicidi-suicidi, con l’aggravante dei bambini orfani di entrambi i genitori.
Ci chiediamo: cosa fare, da dove bisogna partire?
Forse la famiglia, la scuola e tutte le altre agenzie educative dovrebbero porsi un unico obiettivo: educare all’affettività, al rispetto dell’altro, al dominio dei propri istinti, a capire che la donna appartiene solo a se stessa e non è proprietà di nessuno.
Questi principi devono essere inculcati dalla più tenera età. Bisogna fare crescere i nostri figli in ambienti in cui siano banditi il sopruso, la prevaricazione, la violenza.
Al contrario, devono prevalere gli esempi di tolleranza, di condivisione, di sostegno, di comprensione, di benevolenza, di tenerezza e di amore.