Dalle sorelle Mirabal all’educazione sentimentale

EDITORIALE – Il 25 novembre 1960, le tre sorelle Mirabal, attiviste politiche della Repubblica Dominicana, vennero torturate e bastonate a morte da uomini dell’esercito dominicano durante la dittatura di Rafael Trujillo.

Quasi quarant’anni dopo l’omicidio di Patria, Minerva e Maria Teresa, nel 1999, l’ONU decise di commemorarle e di renderle il simbolo di una delle campagne più importanti tra quelle promosse dall’organismo internazionale istituendo per il 25 novembre la Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

Le Nazioni Unite definiscono la violenza contro le donne come “Qualsiasi atto di violenza fondata sul genere che comporti, o abbia probabilità di comportare, sofferenze o danni fisici, sessuali o mentali per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia che si verifichi nella sfera pubblica che in quella privata”.

Più specificamente, la definizione di violenza di genere si ritrova in due testi di derivazione sovranazionale: la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata a Istanbul l’11 maggio 2011 e ratificata dall’Italia con la Legge 27 giugno 2013, n. 7715; e la direttiva 2012/29/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

La Convenzione di Istanbul, tra le altre, contiene, all’articolo 3, la definizione di «violenza domestica» ossia tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima.

Si comprende, allora, che un tratto caratteristico della violenza di genere è proprio la prossimità, in quanto la violenza di genere trova nelle relazioni domestiche il suo luogo di elezione privilegiato e nella violenza psicologica uno schema di esecuzione frequente quanto, se non di più, della violenza esclusivamente fisica.

Ne consegue, pertanto, che il semplicistico convincimento, alimentato da un crescente populismo giudiziario, di risolvere il problema della violenza domestica e di genere limitandosi ad inasprire il regime sanzionatorio penale non può che scontrarsi con la realtà di un complesso fenomeno che, principalmente, è culturale ed educativo e la cui risoluzione deve partire innanzitutto dalla famiglia e dalla scuola.

È, del resto, evidente che se nella nostra società occidentale un uomo è in grado di arrivare ad uccidere la propria compagna e si suoi stessi figli per poi togliersi egli stesso la vita, un mero aumento di pena, fosse anche l’ergastolo, non fermerà quell’uomo dal mettere in atto le sue sconsiderate azioni.

Agendo, invece, a monte, magari anche attraverso l’educazione sentimentale nelle scuole, molte situazioni problematiche nei rapporti di coppia o familiari potrebbero essere risolte prima ancora che sfocino in disagio o, peggio, in delitti.

Questo ragionamento, peraltro, trova conferma nell’articolo 14 della già citata Convenzione di Istanbul, la quale suggerisce agli Stati che l’abbiano ratificata di introdurre una forma di educazione all’affettività nelle scuole di ogni ordine e grado: “1 Le Parti intraprendono, se del caso, le azioni necessarie per includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado dei materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta dei conflitti nei rapporti interpersonali, la violenza contro le donne basata sul genere e il diritto all’integrità personale, appropriati al livello cognitivo degli allievi“.

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