EDITORIALE – “Grazie Giampiero, grazie per il riso e grazie per tutto, però un particolare: questo ragazzo non te lo mando, ma te lo porto io in persona…perché di giovani uomini ne ho visti tanti, ma come questo nessuno”. A parlare è Cesare Bortolotti, presidente storico dell’Atalanta, e quel Giampiero è Boniperti, Presidente della Juventus negli anni 70/80 che, in un pomeriggio di luglio del 1974, definiscono il passaggio di un giovane e talentuoso difensore dal nome di Gaetano Scirea da Bergamo a Torino. Boniperti, oltre a un conguaglio economico, consegna a Bortolotti anche tre sacchetti di riso pregiato del vercellese, perché quel “giovane uomo” merita anche un omaggio simbolico, c’è la stima tra le due società, ma soprattutto già la consapevolezza che non si sta parlando di un calciatore qualunque. Solo a pronunciare il nome Scirea, l’accostamento più naturale che ne deriva è quello che porta alla maestria, all’eleganza, alla signorilità, tutte doti che a un esteta come l’Avvocato Agnelli difficilmente passavano inosservate. Ma il giovane Gaetano, a sentir parlare chi era cresciuto con lui nel villaggio “Pirelli” di Cinisello Balsamo, tutto questo “santerellino” proprio non era. Era timido si, come racconta anche Federico Buffa, ma aveva una personalità quasi da “calciatore slavo”, giocando molto di “finta e palleggio”, sempre in posizione eretta e mai scomposto. E dire che il numero 6 storico di nazionale e Juventus è cresciuto con la passione per l’Inter e per Giacinto Facchetti, sin da quando, all’età di 12 anni, assistette alla storica rimonta nerazzurra del 12 maggio del 1965 al Meazza contro il Liverpool, con gol finale proprio del suo beniamino. Ma il piccolo Gaetano non sa che il destino gli riserverà l’onore e onere di sostituire dieci anni dopo in nazionale proprio quel “Facchetti lì” nel ruolo decisivo di libero. Esordisce in serie A il 24 settembre del 1972, il difensore centrale dell’Atalanta, Savoia, si infortuna e tocca a lui il compito gravoso e difficile di marcare Gigi Riva nel suo “Sant’Elia” alla prima di campionato. Finisce 0 a 0 con una buona prova del giovane ragazzo di Cinisello, e con il “Gigi nazionale” che già riconosce in lui doti rare ed eccezionali “che lo renderanno un grande calciatore”. Due anni dopo però, Gaetano Scirea si ritrova a Torino, alla corte della “Signora” bianconera. Suo fratello Paolo ricorda bene quel giorno, con l’arrivo “addirittura in anticipo al primo raduno” e con Gaetano, in tutta la sua timidezza e rispettabilità, “quasi timoroso nello scendere dall’auto”. Nella città della Mole trova una squadra piena di campioni, da Bettega a Gentile, passando per Anastasi e Altafini fino a Zoff, il suo capitano, che poi diventerà anche il suo migliore amico. Il ventunenne si ambientò subito e giocò 28 delle 30 partite della stagione 1974-75, divenendo stabilmente titolare e vincendo il suo primo campionato, il sedicesimo per i bianconeri.

Diventerà un leader negli anni successivi, sia in campo che fuori, silenzioso, carismatico, elegante ed essenziale. Non fa giocate difficili o impossibili, è utile nella sua eleganza, nel suo tocco di palla e anche nel fiuto sotto porta, tanto che un maestro di giornalismo del calibro di Gianni Mura, lo celebrò affermando che «da ragazzino lui sognava Suárez e Rivera, la maglia numero 10, la direzione d’orchestra. Ci è arrivato ugualmente, con la maglia numero 6: direzione della difesa e appoggio al centrocampo e all’attacco». Nella sua lunga carriera in campo, segnata da correttezza e signorilità, spicca la completa assenza di espulsioni, fatto più unico che raro per un calciatore del suo ruolo. Esordisce in nazionale il 30 dicembre 1975, all’età di 22 anni, nella partita amichevole Italia-Grecia (3-2), durante la gestione di Enzo Bearzot e Fulvio Bernardini; mise a segno il suo primo gol in azzurro il 19 aprile 1980, in una partita amichevole pareggiata per 2-2 contro la Polonia. E’ tra i protagonisti del mondiale vinto dagli azzurri in Spagna nel 1982, con Gentile formano una coppia completa da “diavolo ed acquasanta”, con il difensore italo libico a fare il lavoro sporco (celebri le sue marcature contro gli attaccanti di Argentina e Brasile), e Scirea a coordinare e ordinare la squadra. E’ autore dell’assist per il secondo gol di Tardelli (quello del celebre urlo) nella finale dell’11 luglio 1982 e vinta per 3 a 1. Tanti gli aneddoti legati a quel mondiale, dalla celebre partita a carte sull’aereo di ritorno tra Pertini, Zoff, Bearzot e Causio, fino ai festeggiamenti post finale, con lo stesso capitano azzurro e Scirea a tornare in albergo a tarda notte per bere un bicchiere di vino e fumare una sigaretta. Come facevano quasi ogni sera ok, ma quella notte lo fecero da Campioni del Mondo. La sera del 3 settembre di trenta anni fa la ricordo bene, avevo 7 anni e, come ogni domenica, mio padre era preso dal guardare “La Domenica Sportiva”. Ricordo la voce rauca e quasi incredula di Sandro Ciotti, le lacrime di Tardelli che lascia lo studio e gli occhi rossi di mio padre, che con voce commossa iniziò a parlarmi dei suoi aneddoti al “Comunale” o di quando Scirea entrò nel negozio dove lui lavorava per farsi aggiustare la macchina telecomandata da regalare a suo figlio Riccardino. Libero, riservato, elegante, carismatico, uno sguardo e Scirea rimetteva a posto ogni cosa, da una linea difensiva fino a uno schema da attuare, dialogante quel tanto che bastava e utile nella sua presenza in campo, rispettabile e sicura. Se ne è andato su una strada polacca una maledetta domenica di trent’anni fa, il 3 settembre 1989 appunto, morto nel rogo della sua auto, per la meticolosità e l’accortezza e il carisma di chi non lascia in sospeso nulla, neppure un avversario “modesto” da affrontare e visionare. Si era recato in Polonia per assistere alla partita di una futura avversaria della Juventus in Coppa Uefa, quel Górnik Zabrze che a detta di tutti non era un granchè, ma il campione si sa, è attento e non lascia nulla al caso, accettando così l’invito del Presidente Boniperti ad andare, nonostante Zoff, allora allenatore della Juventus, fosse contrario. Il suo capitano che, non appena seppe dell’incidente, diede un calcio alla portiera della macchina. La squadra era reduce da un netto 4 a 1 a Verona, ma cosa importava a quel punto il risultato? Gaetano Scirea è stato molto più di un calciatore, pur non chiedendo altro che di essere se stesso. Trent’anni e quella maglia numero 6 che era la quintessenza del libero, di un uomo libero sul campo e nella vita. Trent’anni e un bisogno di silenzio, nella stagione dei troppi rumori senza pensiero c’è ancora bisogno di ricordare e celebrare i campioni di un calcio che forse non c’è più.
