Giorno della Memoria: alcune riflessioni oltre l’ovvio, che ci riconducano al presente

Oggi si celebra il Giorno della Memoria, per ricordare la tragedia dell’Olocausto, che travolse innanzitutto gli ebrei d’Europa sulla base di una politica razzista, alimentata da una cultura dell’antisemitismo che nel vecchio continente covava sin dal Medioevo e che i regimi totalitari degli anni ’30 (seguiti dai governi collaborazionisti che progressivamente si affermarono soprattutto nell’Europa centrale) riabilitarono quale uno dei principi cardine su cui fondare le “società nuove”.
Prima discriminati per via legale (le leggi di Norimberga in Germania nel 1935, le leggi razziali in Italia nel 1938), poi deportati nei campi di concentramento e infine destinati all’annientamento. Ne perirono 6 milioni. La data coincide con la liberazione del campo di Auschwitz da parte delle truppe dell’Armata Rossa sovietica, nella loro avanzata verso ovest che le avrebbe portate, in pochi mesi, a invadere il Terzo Reich e occupare Berlino, decretando la caduta del Nazismo.

La prima pagina del Corriere della Sera che annunciava le leggi razziali volute dal Fascismo e firmate dall’allora Re d’Italia, Vittorio Emanuele III

Ora, quali considerazioni fare nella giornata odierna, cercando di eludere l’inevitabile retorica nella quale si rischia di cadere ripetutamente, nonché quali informazioni divulgare, considerando che gran parte di quello che si può dire è ormai – si spera – di pubblico dominio? Come rendere la memoria dell’Olocausto “strumento” utile non solo a commemorare il passato, ma a comprendere le dinamiche del presente, soprattutto per generazioni anagraficamente sempre più lontane da quell’evento?

Proverò a farlo ponendo alcuni punti di discussione che, solitamente, restano in secondo piano nelle ritualità che animano l’importante appuntamento annuale col 27 gennaio.

Innanzitutto: bisogna utilizzare il termine Olocausto in senso estensivo, in quanto dello sterminio nazista non fu protagonista solamente la popolazione ebraica, sebbene essa abbia avuto parte predominante nel folle piano di pulizia etnica ideato negli anni più bui del Novecento.
Nei campi nazisti perirono infatti membri ascrivibili ad altre minoranze etniche, come ad esempio i Rom e Sinti (volgarmente chiamati zingari), di cui spesso ci si dimentica. E che però, almeno per quanto ci riguarda, rappresentano la cultura a noi più prossima, perché in Italia vivono attualmente molti più cittadini (italiani o non) di appartenenza rom e sinti che non ebrei. In particolare, in Basilicata, dove esistono comunità importanti in comuni come Melfi e Lauria, per esempio. Le vittime rom sono state circa 300.000: un numero sicuramente non paragonabile a quelli della Shoah (termine con cui gli ebrei designano l’Olocausto), ma qui non sono importanti i numeri, quanto il principio. E l’impatto che quel dramma collettivo ha avuto sulla cultura nomade è stato tale che gli appartenenti a essa hanno una parola specifica per designarlo, quello di Porrajmos (“Grande divoramento”), che viene ricordato nella data del 2 agosto (quando avvenne il più consistente assassinio di rom nel campo di Auschwitz, a seguito di una rivolta). Bisogna però considerare che quello riferito riguarda solamente il numero di vittime che è stato possibile ricostruire mediante l’analisi dei documenti relativi alle deportazioni; rom e sinti furono vittime anche di esecuzioni sommarie nei territori occupati dalle forze dell’asse, quali i Balcani (dal 1940) e l’Unione Sovietica (dal 1941), dove questi gruppi etnici erano presenti in maniera consistente. È per questo motivo che gli studi storici che hanno provato ad approfondire tale questione tendono a ipotizzare in circa un milione le vittime rom e sinti nella Seconda Guerra Mondiale.

La foto segnaletica di un deportato di etnia rom, con il triangolo di colore marrone che serviva a distinguerne l’appartenenza all’interno dei campi di concentramento.

Oltre a ebrei, rom e sinti, nel corso dell’Olocausto – e quindi su tutto il teatro di guerra, e non solo nei campi di sterminio del Terzo Reich – persero la vita (numeri approssimativi) tre milioni e mezzo di slavi orientali, quattrocentomila slavi balcanici, tre milioni e mezzo di prigionieri di guerra sovietici, due milioni di prigionieri politici, trecentomila disabili, quindicimila omosessuali, duemila testimoni di Geova.

Il triangolo viola, simbolo distintivo dei testimoni di Geova all’interno dei lager

Secondo elemento di riflessione, che parte dalla necessità di rendere quella Memoria elemento attivo nella costruzione di una società contemporanea basata su saldi principi di inclusione e solidarietà, soprattutto nei confronti delle minoranze, e in generale dei settori più deboli della società. Per farlo, è necessario affiancare a quella Memoria l’analisi razionale dei conflitti e delle sanguinose tragedie di massa che segnano il nostro tempo, e che sembrano riprodurre elementi di violenza assimilabili a quelli vissuti in quegli anni – sebbene con proporzioni nettamente diverse, ma lo ripeto, qui non contano i numeri, conta il principio.
Il male è parte della società e nessuna cultura umana è riuscito a debellarlo, anche quelle che hanno offerto le proiezioni più libertarie hanno accolto al loro interno dinamiche pienamente umane che hanno reso la libertà un’utopia e la violenza un esercizio reale e materiale. Se di Primo Levi non ci limitassimo a ripetere pedissequamente celebri locuzioni letterarie, ma indugiassimo a leggere e riflettere sulla sua opera più significativa, sul suo testamento analitico, I sommersi e i salvati (Einaudi, 1986), capiremmo che il “male” si riproduce costantemente, e bisogna quindi costruire coscienze individuali e collettive in grado di affrontarlo, senza l’immaginifica credenza che sia possibile estirparlo per sempre.

E dunque, voglio chiosare questo tentativo di ragionamento oltre la retorica recuperando una riflessione potentissima che una grande intellettuale italiana di cultura ebraica, Anna Foa, propone nel suo ultimo libro, Il suicidio di Israele (Laterza, 2024): come possiamo celebrare la memoria della Shoah oggi, senza parlare del 7 ottobre e di Gaza?

Quanto questa memoria – aggiungo io – è infangata, insozzata da chi la usa strumentalmente – il governo israeliano a guida Netanyahu – per giustificare crimini contro l’umanità di cui è vittima, nuovamente, una popolazione considerata reietta e fonte di ogni problema?
Le recenti parole di Donald Trump riaccendono scenari inquietanti in cui riecheggia l’eco di deportazioni.
Facciamo in modo che la Memoria ci aiuti, quindi, a combattere la follia del presente, o quantomeno a darci coscienza che esiste ancora, che non è mai scomparsa.

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