Giuseppe Catenacci a 50 anni dalla sua scomparsa. Il ricordo di Peppino Molinari e Giuseppina Di Mascio

EDITORIALE – Sono trascorsi 50 anni dalla morte di Giuseppe Catenacci uomo politico lucano, un ingegnere con la passione civile che da Rionero suo paese natale molto contribuì alla prima fase della storia Repubblicana attraverso il suo impegno nella DC. Un amore contrastato quello di Catenacci con il suo partito. Candidato sia alla Costituente che al parlamento come deputato non fu eletto ma nonostante questo continuò liberamente ad esprimere le sue opinioni spesso in dissenso con il gruppo dirigente soprattutto locale. Antifascista viscerale interpretava in senso ontologico l’appartenenza ad un partito di centro che guardava a sinistra in quanto sempre attento alle fasce più deboli e alle battaglie per l’affrancamento da povertà e disagio. Per lui il Mezzogiorno era la frontiera della democrazia e chiedeva a gran voce investimenti per uscire dall’isolamento logistico attraverso le infrastrutture ferroviarie e stradali e culturale puntando sulla formazione scolastica.

Come tutti i visionari spesso risultava incompreso all’establishment che governava i processi politici a tal punto da subire una progressiva emarginazione. Ma la passione per la politica e l’impegno civico era sempre prevalente e non ha mai rinunciato al confronto nel dibattito pubblico sempre con tenacia e determinazione. Aveva nella costituzione e nei principi della prima parte la sua bussola e non si è mai discostato anche quando decise di lasciare a malincuore la DC per approdare al movimento di Adriano Olivetti. Leggere la sua storia e anche i suoi interventi riporta ad una politica autentica fatta di passione e di impegno senza tornaconto personale, di ideali senza il prevalere di una dimensione organigrammatica. Qualcuno potrebbe obiettare che erano tempi diversi ma erano anche persone diverse. Avevano il portato della sofferenza della dittatura e della guerra e soprattutto avevano la voglia di riscatto da condividere con le proprie comunità. Era una dimensione di rappresentanza che partiva da una appartenenza ideale e culturale su cui si cercava la condivisione. Un impegno figlio di quel cordone ombelicale con le proprie comunità che sembra essersi smarrito oggi nella dimensione del virtuale. Rileggerlo mostra una grande lungimiranza tant’è che le sue parole risultano di grande attualità soprattutto per quel che riguarda la questione meridionale.

E’ stata probabilmente una personalità politica che potremmo definire senza alcun dubbio “visionaria” e che ha pagato lo scotto della autonomia di pensiero non raccogliendo quanto avrebbe meritato. Uno quei talenti che nel calcio definiremmo incompiuto perché magari non ha vinto un trofeo ma sicuramente è stato in grado di lasciare un segno in quel tempo e in chi lo ha conosciuto. Ricordarlo non è semplicemente un dovere di memoria ma il giusto e doveroso tributo ad un uomo politico che ha creduto fino in fondo alla funzione stessa della politica come strumento di rappresentanza e di miglioramento delle condizioni di vita e di progresso civile e materiale delle comunità.

Giuseppe Catenacci morì l’8 febbraio 1975 ed ho chiesto alla nipote Giuseppina Di Mascia una sua testimonianza molto significativa. Persona straordinaria ma soprattutto scrigno dei suoi tanti ricordi che conserva con cura e diligenza fatti di documenti, foto, lettere e libri perché la vita di Catenacci fu caratterizzata da intense relazioni umane, politiche,sociali e culturali. A lei , che ringrazio vivamente, si deve se in questi anni Catenacci non è caduto nell’ oblio ed oggi è oggetto di studio ed approfondimento anche grazie ad Antonio Cecere presidente dell’Archeoclub del Vulture.

Di Giuseppina Di Mascio

Peppino Molinari Ho conosciuto l’ingegnere Giuseppe Catenacci nel 1965, quando venni invitata dal nipote Mauro, diventato mio marito nella sua casa di via Pennella.

Raccontare il bagaglio di emozioni, di cultura e di rapporti che si sono creati nel periodo in cui ho vissuto a stretto contatto con lo zio, dal giorno del mio arrivo all’8 Febbraio del 1975, giorno del suo passaggio alla vita eterna, è veramente cosa impossibile, troppo da raccontare e molto da dimenticare.
Ricorrendo quest’anno il 50° della sua morte, proverò a ricordare gli insegnamenti, il coraggio di agire, la moralità di quest’uomo.


L’ingegnere Catenacci fu ammiratore, cultore e propugnatore dell’idee di Giustino Fortunato.
L’intensa vita intellettuale di Giustino fortunato fu per lui un modello.
Egli ebbe come maestri di vita anche uomini come padre Semeria e padre Minozzi, due pilastri che con l’esempio la parola e le opere hanno mostrato alle genti quanto possa fare la volontà nel superare gli ostacoli della vita quotidiana.
Nei suoi scritti dove si è profuso disinteressatamente, ha mostrato una pratica cristiana della vita, ha mostrato anche tutta la sua personalità carica di una potenza intellettuale capace di calcolare con anticipo le molteplici implicazioni di un problema e predisporne le soluzioni adatte: fu lavoratore instancabile in tutte le attività svolte con una dinamicità che aveva dello stupefacente.
Quel “E’ nato un vulcano” titolo di uno dei suoi scritti, può ben adattarsi ad essere metafora della sua eruttabilità.
Nella difesa della terra natale, come scrittore di problemi meridionalistici, come ingegnere progettista, come agricoltore attivo e laborioso, come scalatore delle vette dell’appennino, come guidatore di auto e motocicli negli anni 30 – 40, come professore di Topografia e Costruzioni, come ufficiale della Prima guerra mondiale ha mostrato la duttilità del suo ingegno vulcanico.
Caduto il nefasto regime fascista, fu il numero 1 della DC lucana.
Consultore nazionale e deputato provinciale su designazione del comitato di liberazione provinciale.


La lotta politica era per lui il terreno in cui riversava naturalmente tutto il bagaglio della sua formazione teorica di tecnico e di conoscitore specializzato nella osservazione diretta del paesaggio Lucano e meridionale.
Egli era attaccato alla sua terra come l’asceta al deserto e quando Giustino Fortunato lo incitava a lasciare il paese (natio borgo selvaggio) mostra il fermo proposito di voler restare Rionero.
Allora organizza circoli associativi, celebrazioni, promuove ricorrenze, partecipa alla Fondazione della banca agricola, si occupa di arte e di storia: riparazione della Chiesa Madre dopo il terremoto del 1930; della croce del vulture, progettazione del teatro Combattenti, lavori per la casa di riposo, dell’asilo, tutto a titolo gratuito.
Giustino Fortunato gli affida anche i lavori della sua casa di Rionero e di Gaudiano.
Nei momenti di relax si cimenta nella scultura: il gruppo della Pietà nella cappella del cimitero, il busto della moglie morta, il busto di Michele Granata, l’ovale di Giustino Fortunato, senza tralasciare la sua vocazione giornalistica e politica che affronta da solo senza avere alle spalle un’organizzazione efficiente.
Nelle elezioni politiche del 1948 in cui fu candidato per essere eletto in Parlamento non ebbe l’appoggio degli elettori del Vulture e non fu eletto, arrivò secondo. Continua la sua attività politica come consigliere comunale e provinciale.
Avrebbe potuto mettersi da parte e occuparsi dei suoi interessi che erano molti e vari quando durante una delle tante conferenze gli capitò di subire insulti verbali e perfino aggressioni fisiche.


Umiliato, avrebbe potuto abbandonare la scuola a cui aveva dato i migliori e più fattivi anni della sua vita le altre attività di beneficenza per dedicarsi ad altro lavoro più redditizio.
Non volle, perché un soldato non abbandona il suo posto di guardia ed egli era stato soldato, in trincea, per tre lunghissimi anni.
Sopportò tutto, non fosse altro per dare il suo modesto contributo nell’educare i giovani alla vita rigida e purtroppo senza gloria della virtù.
Ne ebbe però un premio, la gioventù studiosa non gli mancò mai di rispetto perché dette, ad essa, l’esempio dell’onestà e della correttezza non pensando mai al male e a farsi guidare da sentimenti di simpatia o di antipatia.


I giovani studenti che frequentavano l’università durante le vacanze estive venivano nel suo studio per chiedere consigli e per leggere i suoi scritti.
A questi giovani dedicò la prefazione di un suo scritto: I Vicariati di Melfi e Spoleto”: “ ai giovani rioneresi, professionisti, studenti, e operai….. giudichino in avvenire per quanto si è fatto e si farà nella difesa degli interessi del Paese, nel quadro della Regione lucana; continuino l’azione generosa e disinteressata per l’innovazione del Mezzogiorno d’Italia; non facciano delle inutile campanilismo ma rintuzzino, ove occorra, le pretese non giuste di altri paesi a danno del proprio; rispettino le Autorità costituite ma non si pieghino servilmente e pavidamente, nel caso che esse pretendano la umiliazione propria e specialmente del paese; si interessino della politica intesa come vita del Paese, della Regione e della Nazione senza la brama smodata di prevalere di utili, di cariche e di onori personali.
Le passioni e le delusioni o le vittorie del momento passano, restano le opere per le quali si è dato il contributo fattivo per la loro realizzazione”.
Non credo di aver peccato di nepotismo nel tratteggiare la figura di un uomo che in vita non ha mai concepito il male e la vendetta, ma che ha sempre agito per il bene e perdono cristianamente inteso.


Se qualcuno di voi che legge lo pensasse voglia perdonare alla nipote la sua venerazione per lo zio. Giuseppina Di Mascio

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