Gli anti eroi, il loro impegno e un cinema che non tornerà più: trent’anni anni senza Gian Maria Volontè

EDITORIALE – Esistono interpretazioni che vanno oltre la recitazione di un copione o di un personaggio, come esistono attori che con il loro carisma, non lasciano intendere per nulla dove inizi la propria parte o finisca la propria spontaneità.

Gian Maria Volontè era uno di questi, un duro, un sentimentale, un appassionato e un guerrigliero, qualsiasi cosa gli venisse chiesta lui era lì, pronto, a dare un’anima ai suoi personaggi.

“Tu pensa a dove vuoi mettere la cinepresa, al personaggio ci penso io”, pare che abbia detto Volontè a un incredulo Elio Petri nel 1970 sul set di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, il quale rappresenta ancora oggi una pietra miliare di quel cinema socialmente impegnato che l’Italia ancora oggi rimpiange, troppo presa ormai da cinepanettoni e commedie scritte più che per creatività, per esigenze di case produttrici.

Il 6 dicembre 1994, sul set di Angelopoulos Lo sguardo di Ulisse, moriva Gian Maria Volonté, l’interprete più impegnato nella storia del nostro cinema, capace di trascendere il ruolo di attore per debordare a pieno titolo in quello di intellettuale. Figlio di un fascista militante, comandante nelle brigate nere, a sedici anni è in Francia a lavorare come raccoglitore di mele e legge Sartre: «La libertà è quello che facciamo con quello che ci viene fatto», è una frase che amava sempre ripetere ad amici e colleghi.

“Sbatti il mostro in prima pagina” (1972)

Camaleontico, è l’attributo che è più frequente rintracciare nel possibile racconto della carriera di Volonté: una continua esplorazione dell’animo umano, «un metodo d’inchiesta», secondo autorevoli critici.

Esplorò come pochi l’anima di quell’Italia presa tra battaglie operaie, politica e inchieste, uno sguardo raffinato e spontaneo, che in sé racchiudeva l’animosità e il carisma del metalmeccanico in “La classe operaia va in Paradiso”, o del caporedattore senza scrupoli in “Sbatti il mostro in prima pagina”, film che ancora, per il sottoscritto, rappresenta una vera scuola di giornalismo senza eguali.

Una storia su tutte può far capire al meglio quanto Volontè fosse interessato più alle narrazioni da portare avanti, piuttosto che ai personaggi e alle sue virtù eroiche. Perse Hollywood e uno dei ruoli più importanti della storia del cinema, quello di don Vito Corleone ne Il Padrino: in quello stesso periodo fu Vanzetti per Montaldo, l’operaio Lulù per Petri ed Enrico Mattei per Rosi, e un anno e mezzo sul set con tutti e tre i suoi uomini era qualcosa di irrinunciabile per qualunque motivo, doveva essersi detto. Disse no anche a Bertolucci per Novecento, per andare in Messico a girare Actas de Marusia, proprio la storia di quel massacro di minatori in sciopero in Cile. Forse è stato realmente questo, il metodo Volonté: l’inguaribile responsabilità di raccontare storie, e il bisogno di sceglierle accuratamente.

Manca al cinema, manca all’attualità e manca a quelle generazioni in cerca di eroi e antieroi vivi e carismatici. Aldilà del bene e del male, del giusto e sbagliato, il 6 dicembre di trenta anni fa, se ne andava l’ultimo baluardo di un’Italia che aveva ancora bisogno di essere raccontata, con garbo, critica, rabbia e amore, ma mai rassegnazione.

“La classe operaia va in Paradiso” (1971)