Mai come quest’anno, date le mutate condizioni politiche del Paese che hanno portato al potere il governo più a destra della storia repubblicana, le celebrazioni del 25 Aprile sono finite in un tritacarne di rivendicazioni, legittimazioni e delegittimazioni come mai, probabilmente, era successo in precedenza. Certo, siamo già dimentichi del fatto che Silvio Berlusconi, al comando del paese per svariati anni, si ricordò solamente nel 2009 che in questa data vi era da celebrare una festa nazionale, e lo fece con un notorio discorso cerchiobottista nell’emotiva cornice di Onna, località alle porte de L’Aquila, spazzata via alcuni giorni prima dal terribile terremoto che colpì l’Abruzzo.
Ma, ovviamente, che a prendere in carica istituzionalmente l’onere della rievocazione di quello che dovrebbe essere considerato un momento fondativo dell’Italia repubblicana e democratica siano i rampolli della destra neofascista italiana, seppur depurati delle incompatibilità ideologiche – non tutti, come è noto – dalle abiure o presunte tali fatte in località famose per le acque sulfuree (non a caso), beh, è evidente, non può che ravvivare vecchie e mai curate lacerazioni, che sono proprie della dialettica politica italiana, complessa, difficile e cruenta, e probabilmente incurabile con formule retoriche e bonarie quali quelle a cui si allude con l’utilizzo di parole come “riconciliazione”, “pacificazione”.
È infatti questa ostinata convinzione che ci si debba necessariamente ritrovare nell’episteme di un momento per sua prerogativa lacerante – quello della liberazione dal nazifascismo, con tutto quello che ha rappresentato in termini di sacrificio e sofferenza, in tutte le parti in gioco, sia prima che dopo – in nome di un forzato e fittizio “amor di patria”, a produrre le aberrazioni dialettiche a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane: da un lato, da parte di chi – in difficoltà perché probabilmente inadeguato a indossare abiti pensati da sarti concorrenti – ha giocato a sminuire e sbeffeggiare la Resistenza italiana, come d’altronde fatto negli ultimi ottant’anni; dall’altro, da parte di coloro che, pateticamente e retoricamente, richiedono a queste forze politiche di rinnegare la loro weltanschauung, di divenire altro per il tempo di un giorno, sperando invece che restino quello che sono per tutto il resto dell’anno.
Il declino italiano è cominciato proprio quando si è imposta la necessità della riconciliazione, del confondere le acque, del “volemose bene”, delle parificazioni, percorso decrescente passato anche per le riforme elettorali, i maggioritari, le privatizzazioni, lo smantellamento del welfare, l’attacco al lavoro. Perché possiamo anche pretendere che una Giorgia Meloni si professi antifascista per un giorno, ma se dimentichiamo – come abbiamo fatto negli ultimi trent’anni – che antifascismo è una diversa visione del mondo, un diverso umanesimo, un diverso spirito di relazione con l’altro e di impegno per l’altro, allora stiamo giocando. E col gioco muore la coscienza residua di un intero popolo, incapace ormai di difendere ciò che gli spetta.
Riconoscersi è importante. Rimanere ciò che si è, anche.