di Charles Laval
Seduto al Café des Philosophes, in un angolo della Rue des Écoles dove la luce del crepuscolo parigino filtrava attraverso i vetri appannati, osservavo il mio riflesso moltiplicarsi negli specchi Liberty che adornavano le pareti. Mi chiedevo quale dei tanti me stessi fosse quello vero: quello di fronte, quello di profilo, o forse quello che si nascondeva tra uno specchio e l’altro, nell’angolo cieco della percezione. Il cameriere – un uomo anziano con baffi sottili che sembravano disegnati a matita – disponeva le tazze vuote sul bancone come se stesse componendo una formula matematica. Ogni tazza, rifletté, era un oggetto che univa le persone: chi l’aveva usata prima, chi l’avrebbe usata dopo, le conversazioni che aveva ascoltato in silenzio. “Monsieur,” mi disse improvvisamente, “sa che questa è la tazza che usava sempre Jean-Paul Sartre?” La sollevò con reverenza teatrale. “O almeno, così diceva mio padre. Ma chi può dire se sia la verità? Forse è solo una delle tante storie che raccontiamo per dare un senso agli oggetti che ci circondano.” Mi ritrovai a sorridere, pensando a come ogni oggetto in quel caffè fosse un ponte tra epoche diverse, tra persone che non si sarebbero mai incontrate. Le sedie di velluto rosso consumato raccontavano storie di conversazioni infinite, di manifesti letterari scritti su tovaglioli, di amori nati e morti tra una tazza di caffè e l’altra. Una giovane donna seduta al tavolo accanto scriveva furiosamente su un taccuino, fermandosi ogni tanto per guardare fuori dalla finestra, dove la Tour Eiffel brillava nel buio crescente come un faro di certezze in un mare di dubbi. Mi chiesi cosa stesse scrivendo: forse anche lei cercava di catturare l’essenza sfuggente della verità, di definire i limiti del suo mondo attraverso le parole che tracciava sulla carta. Il caffè si riempiva e si svuotava come un organismo vivente, e ogni cliente che entrava portava con sé un frammento di futuro, ogni cliente che usciva portava via un pezzo di passato. Le galassie lontane di cui parlavano i giornali abbandonati sui tavoli sembravano più vicine e tangibili dei pensieri delle persone sedute a pochi metri da me. “La verità,” mormorò il cameriere, come se avesse letto i miei pensieri mentre mi versava la terza tazza di caffè, “è come il nostro espresso: amara, densa, e lascia sempre un po’ di fondi sul fondo della tazza. Non si può mai consumare completamente.” Mentre la notte avanzava, il Café des Philosophes diventava una nave alla deriva nel tempo, dove ogni tavolo era un’isola di solitudine condivisa, ogni conversazione un tentativo di gettare un ponte sull’abisso che separa un essere umano dall’altro. E forse, pensai, era proprio questo il punto: non trovare una verità definitiva, ma continuare a cercarla insieme, in questo spazio sospeso tra la certezza soggettiva e la verità oggettiva, tra il detto e il non detto, tra il caffè che si raffredda e i pensieri che si riscaldano.
Fu allora che compresi: il caffè stesso era una metafora del mondo che cercavo di descrivere, un microcosmo dove ogni sera si ripeteva l’eterno tentativo umano di comunicare l’incomunicabile, di afferrare l’inafferrabile, di dire l’indicibile. E mentre le ultime luci si spegnevano e il cameriere iniziava a impilare le sedie, mi resi conto che forse la verità non era né di fronte né di profilo, ma nell’atto stesso di cercarla, nel movimento perpetuo tra solitudine e comunione, tra parola e silenzio, tra essere e nulla. Mentre il cameriere continuava il suo rituale di chiusura, un ultimo cliente entrò nel caffè. Era un uomo anziano con una sciarpa rossa e un libro sottobraccio, il tipo di persona che sembrava appartenere tanto al presente quanto al passato. Si sedette al mio tavolo senza chiedere permesso, come se avessimo un appuntamento di cui mi ero dimenticato. “Sa,” disse aprendo il libro che portava con sé, “ogni sera vengo qui per leggere l’ultima pagina di un libro diverso. Mai la prima, sempre l’ultima. È il mio modo di protestare contro l’ordine prestabilito delle cose.” Il libro era consumato, con quella patina giallastra che solo il tempo sa dare alla carta. “Perché dovremmo sempre iniziare dall’inizio? Chi ha stabilito questa regola?” Il cameriere, che evidentemente conosceva bene il nuovo arrivato, portò senza che fosse ordinato un bicchiere di cognac e una tazza di tè. “Per il signor Lefebvre,” disse, “il cognac è per dimenticare, il tè per ricordare. Ogni sera decide quale bere per primo.” Osservai come il signor Lefebvre disponeva metodicamente davanti a sé i due bicchieri, creando una geometria precisa con le gocce di condensa che si formavano sui vetri. “Vede,” continuò, “questo caffè è l’ultimo posto a Parigi dove il tempo non è ancora diventato tiranno. Qui, il futuro e il passato si mescolano nelle tazze come lo zucchero nel caffè. Sa perché?” Non attese la mia risposta. Estrasse dalla tasca un vecchio orologio da taschino e lo pose sul tavolo. La cosa curiosa era che le lancette giravano al contrario. “L’ho fatto modificare trent’anni fa. È il mio piccolo atto di ribellione contro la linearità del tempo. In questo caffè, con questo orologio, posso permettermi di vivere al contrario.” La giovane donna del taccuino, che fino a quel momento aveva continuato a scrivere, si voltò verso di noi. “Monsieur Lefebvre,” disse con un sorriso che sembrava nascondere mille storie, “ancora una volta sta confondendo questo straniero con le sue teorie?” Chiuse il suo taccuino e si unì a noi, portando con sé una sedia. “Marie scrive sempre la fine delle storie che non ho il coraggio di concludere,” spiegò Lefebvre. “È il nostro piccolo gioco: io leggo finali, lei li scrive. A volte penso che siamo gli ultimi custodi di tutte le storie non finite di Parigi.” Marie aprì il suo taccuino e iniziò a leggere: “E così, mentre le galassie continuavano la loro danza infinita, nel piccolo Café des Philosophes, ogni sera, si ripeteva il miracolo: il tempo si fermava, si contorceva, tornava indietro. Le parole non dette trovavano voce, i gesti non compiuti prendevano forma, e le verità nascoste emergevano come stelle all’imbrunire.” Il cameriere, che aveva smesso di impilare le sedie, si avvicinò con una bottiglia di vino che non ricordavo di aver visto prima. “Questa,” disse, “la conservo per le serate in cui il confine tra realtà e fantasia diventa particolarmente sottile.” Riempì quattro bicchieri, incluso il suo. “Ai finali che sono inizi,” brindò Lefebvre, “e agli inizi che sono finali.” “Alle parole non dette,” aggiunse Marie. “Al tempo che non esiste,” disse il cameriere. E io, che fino a quel momento ero stato più spettatore che partecipante, mi ritrovai a brindare “Alla verità che, come questo caffè, non è mai dove la cerchiamo, ma sempre dove la troviamo.” Fuori, Parigi continuava la sua vita notturna, ignara del piccolo miracolo che si consumava nel Café des Philosophes. Le luci della città giocavano con le ombre, creando sulla strada figure che sembravano danzare una pavana surreale. E in quel momento capii che forse la verità non era qualcosa da cercare o da trovare, ma semplicemente da vivere, come quella sera, in quel caffè, con quelle persone che avevano fatto della ricerca della verità un gioco infinito di specchi, parole e tempo rovesciato.
Fu Marie a notare per prima che l’orologio di Lefebvre si era fermato. Le lancette, stanche forse di camminare all’indietro, avevano deciso di sostare in quello spazio indefinito tra un minuto e l’altro, tra un tempo e l’altro. “È successo,” mormorò Lefebvre con un sorriso enigmatico. “Finalmente è successo.” Prese l’ultimo sorso del suo cognac – o forse era il tè, ormai era impossibile dirlo – e chiuse il libro che teneva aperto davanti a sé. Ma quando lo chiuse, notai che non aveva né inizio né fine: tutte le pagine erano prime pagine, o forse erano tutte ultime pagine. Il cameriere, che ora sembrava più giovane sotto la luce tremolante delle ultime lampade, iniziò a spegnere le luci una ad una. Ma stranamente, ad ogni luce spenta, la stanza diventava più luminosa, come se l’oscurità stessa emanasse una sua particolare forma di chiarore. “Sa cosa significa quando l’orologio del tempo rovesciato si ferma?” mi chiese Marie, strappando l’ultima pagina del suo taccuino e piegandola in una forma che ricordava una nave di carta. “Significa che abbiamo trovato il punto esatto in cui tutte le verità si incontrano, dove non c’è più bisogno di cercare perché tutto è già stato trovato.” La nave di carta iniziò a navigare nell’aria, sospinta da una brezza impossibile in quel caffè chiuso. Portava con sé tutte le parole che Marie aveva scritto quella sera, ma invece di perdersi, le parole sembravano moltiplicarsi, riflettendosi negli specchi come una pioggia di significati. “In principio era il Verbo,” disse il cameriere, raccogliendo l’ultima tazza rimasta sul nostro tavolo, “ma alla fine sono sempre il caffè e il silenzio.” Lefebvre si alzò, mise l’orologio fermo nella mano di Marie e il libro senza inizio né fine nella mia. “Ogni sera,” disse, “vengo qui sperando che l’orologio si fermi. Perché solo quando il tempo smette di muoversi – avanti o indietro non importa – possiamo vedere la verità per quello che è: non un oggetto da afferrare, non un concetto da comprendere, ma un momento da abitare.” Mi alzai anch’io, e nel farlo notai che il mio riflesso negli specchi non mi seguiva più: rimaneva seduto, continuando una conversazione silenziosa con altri riflessi che non corrispondevano a nessuno dei presenti. “Non si preoccupi,” sorrise il cameriere, “i riflessi a volte preferiscono restare. Fanno parte della collezione del caffè, come le tazze di Sartre e i pensieri non pensati.” Marie liberò un’ultima parola dal suo taccuino – forse “inizio”, forse “fine”, impossibile dirlo con certezza – e la lasciò volare verso il soffitto, dove si unì alle altre in una costellazione di significati sospesi. Uscimmo tutti insieme nel buio luminoso di Parigi. La Tour Eiffel aveva smesso di brillare, o forse brillava così intensamente da sembrare spenta. Le strade erano vuote, o forse così piene di possibilità da sembrare deserte. “Arrivederci,” disse Lefebvre, ma la parola suonò come un benvenuto. “A presto,” disse Marie, ma sembrava un “è sempre stato”. “Buonanotte,” disse il cameriere, ma nella sua voce c’era l’alba. E io, che ero entrato nel Café des Philosophes cercando una risposta sulla natura della verità, mi ritrovai a uscire con la certezza che la verità non è né di fronte né di profilo, né oggettiva né soggettiva, ma è nel modo in cui scegliamo di guardare: attraverso il tempo rovesciato di un orologio rotto, attraverso le pagine di un libro che è tutti i libri, attraverso gli occhi di sconosciuti che diventano familiari nel tempo di una notte fuori dal tempo. Mentre mi allontanavo, sentii il rumore di una tazza che veniva posata su un piattino. Mi voltai, ma il caffè era scomparso. O forse, più semplicemente, era sempre stato lì, aspettando che qualcun altro entrasse cercando risposte e trovando, invece, le domande giuste da farsi.
Disclaimer: Il testo è un racconto di pura fantasia. Tutti i personaggi, i luoghi, gli eventi e le situazioni descritte sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non hanno alcun riferimento intenzionale a persone reali, viventi o defunte, a istituzioni, enti o organizzazioni esistenti. Qualsiasi somiglianza con la realtà è da considerarsi puramente casuale e non voluta. Gli eventi narrati non intendono rappresentare fatti storici reali né fare riferimento a situazioni o circostanze realmente esistenti. Il racconto è stato creato esclusivamente a scopo narrativo e di intrattenimento.