Il cielo di Marisdea

di Charles Laval

“Ma che cielo è questo?” Giuseppe fissava l’orizzonte dal belvedere di Marisdea, con le mani sui fianchi e quella sua tipica espressione da romano trapiantato in Basilicata che ancora, dopo tre anni, non si capacitava di certe cose. “È normale”, rispose Maria senza nemmeno alzare gli occhi dal telefono. Lei ci era nata qui, con quel cielo assurdo che ogni sera decideva di fare quello che gli pareva, come un pittore ubriaco con una tavolozza infinita. “Normal… ma che normale? Guarda là! È verde… cioè, VERDE! E pure rosa. E pure viola. Sembrano i colori di una di quelle discoteche degli anni ’90, presente? Quelle con le magliette fluorescenti e la musica techno.” Maria finalmente alzò lo sguardo, più per esasperazione che per reale interesse. “Giusè, ma non ti stanchi mai di fare il romano meravigliato? Sono tre anni che stai qua.” “E me meraviglierò per altri trenta, se campo. A Roma il cielo è cielo. Azzurro, grigio, nero se piove. Fine. Qua invece… qua pare che qualcuno lassù si è bevuto tre limoncelli e s’è messo a giocare con i filtri di Instagram.” Un gruppo di turisti tedeschi si avvicinò al belvedere, macchine fotografiche alla mano. Giuseppe li guardò con un misto di compatimento e solidarietà. “Guardate ‘sti pori tedeschi. Anche loro non ci stanno capendo un cazzo. Nel loro paese il cielo è come una birra: biondo e prevedibile.” Maria sbuffò, ma non riuscì a trattenere un sorriso. “Sei proprio scemo.” “Scemo? Io sono l’unico sano qui. Voi vi siete abituati all’assurdo. È come vivere in un quadro di Van Gogh dopo che s’è fumato una canna.” Il sole continuava la sua discesa, tingendo le nuvole di sfumature sempre più surreali. La statua del Cristo Redentore, lassù sul Monte San Biagio, sembrava quasi voler dare una spiegazione a tutto quello spettacolo, ma rimaneva in silenzio, probabilmente anche lui un po’ confuso da tutto quel rosa verde e viola. “Sai che ti dico?” concluse Giuseppe dopo qualche minuto di contemplazione. “Mi sa che mi sono trasferito nel posto giusto. Almeno qua, quando mi dicono che non ho tutti i colori a posto, posso dare la colpa al cielo.” Maria rise, questa volta di gusto. “Ecco, questa è la cosa più sensata che hai detto da quando ti conosco.” E il cielo, come per festeggiare questa piccola epifania, aggiunse una spruzzata di arancione fluorescente, giusto per ricordare a tutti che a Marisdea, come nella vita, le cose più belle sono quelle che non hanno senso. Proprio in quel momento, dal bar del belvedere uscì zio Rocco, settantacinque anni di saggezza lucana e proprietario dello stabilimento balneare più antico di Marisdea. “Giusè, ancora qua stai a filosofeggiare sul cielo? Mo’ ti spiego io come funziona qua da noi”, disse avvicinandosi con quel suo passo lento e sicuro. “Il cielo è come una moglie capricciosa: non devi cercare di capirlo, devi solo imparare ad amarlo.” “Zì Ro’, ma che stai a di’? Io c’ho quarant’anni e ancora non ho capito le donne, mo’ mi devo mettere pure a capire ‘sto cielo psicodelico?” “E questo è il tuo problema, Giusè. Tu vuoi sempre capire tutto. Qua in Basilicata abbiamo imparato che ci sono cose che non vanno capite, vanno solo vissute. Come quando mangi un peperoncino crusco: non ti chiedi perché è buono, lo mangi e basta.” Maria annuì con aria soddisfatta. “Visto? Te l’ho sempre detto che devi smettere di fare il romano che analizza tutto.” “Ma io…” Giuseppe si interruppe, guardando prima il cielo, poi zio Rocco, poi di nuovo il cielo. “Va bene, avete vinto. Però almeno datemi il tempo di abituarmi. A Roma l’unica cosa che cambia colore così velocemente è il semaforo di Piazza Venezia.” Zio Rocco rise, una risata profonda che sembrava venire dalla terra stessa. “Giusè, sai qual è la differenza tra Roma e Marisdea? A Roma il tempo lo misuri con l’orologio. Qua lo misuri con i colori del cielo.” “E con le pause caffè di zio Rocco”, aggiunse Maria con un sorrisetto. “Pure quello, pure quello”, ammise l’anziano, avviandosi verso il suo bar. “Mo’ venite dentro che vi faccio assaggiare un amaro che ho fatto io. Il colore non ve lo dico, dovete indovinarlo.” Giuseppe alzò gli occhi al cielo un’ultima volta. “Non me di’ che pure l’amaro qua cambia colore…” “Ah, questo non lo saprai mai se non vieni dentro”, rispose zio Rocco con un sorriso misterioso. E mentre i tre si avviavano verso il bar, il sole completò la sua discesa nel mare, lasciando dietro di sé un cielo che sembrava una tavolozza impazzita, come se qualcuno lassù avesse deciso di festeggiare con un ultimo, grandioso spettacolo pirotecnico fatto solo di colori impossibili e sogni lucani.

Il bar di zio Rocco era uno di quei posti che il tempo aveva deciso di dimenticare, ma in senso buono. Sedie di legno consumate da migliaia di sederi, foto ingiallite di calciatori degli anni ’80 e un televisore che trasmetteva eternamente la stessa partita del Napoli del 1987. “Allora, questo famoso amaro?” chiese Giuseppe, sedendosi al bancone con la cautela di chi sa che sta per succedere qualcosa di strano. “Mo’ te lo prendo, ma prima dobbiamo aspettare Assunta.” “Chi?” “Mia sorella”, spiegò Maria. “La farmacista.” “La farmacista? Ma che c’entra mo’ la farmacista con l’amaro?” Zio Rocco alzò un sopracciglio. “Giusè, tu ancora non hai capito come funzionano le cose qua. A Marisdea tutto è collegato: il cielo, il mare, l’amaro e la farmacia.” “Ah beh, allora mo’ è tutto chiaro”, rispose Giuseppe con quel suo tono che faceva capire che non aveva capito un cazzo. Come evocata dalle parole di zio Rocco, Assunta fece il suo ingresso nel bar. Cinquant’anni portati con l’eleganza di chi ha studiato a Bologna ma è tornata in Basilicata per scelta, non per rassegnazione. “Buonasera a tutti. Giuseppe, vedo che ancora non ti sei abituato ai nostri tramonti”, disse indicando il suo viso ancora perplesso. “Assù, ma tu come fai a sapere che…” “Perché c’hai ancora quella faccia da romano sconvolto. È la stessa che avevi quando hai scoperto che qui il caffè lo facciamo con l’orzo di nascosto e non lo diciamo a nessuno.” “MA QUINDI ERA ORZO? Lo sapevo! Lo sapevo che c’era qualcosa di strano!” Zio Rocco nel frattempo aveva tirato fuori da sotto il bancone una bottiglia senza etichetta. Il liquido all’interno sembrava cambiare colore a seconda dell’angolazione da cui lo si guardava. “Questo”, annunciò solennemente, “è l’Amaro del Cristo.” “Del Cristo? Come la statua?” “No, come il panettiere. Certo che come la statua!”, intervenne Maria, dandogli un leggero scappellotto. Assunta prese la bottiglia e la guardò controluce. “Rocco, hai aggiunto la melissa questa volta?” “E il finocchietto selvatico. Quello che cresce vicino alla grotta delle Meraviglie.” Giuseppe guardava la scena come se fosse finito in un episodio di Twilight Zone girato in Basilicata. “Ma… ma voi siete normali?” “La normalità”, sentenziò Assunta mentre preparava quattro bicchieri, “è sopravvalutata. Qui a Marisdea abbiamo capito che la vita è come questo amaro: ogni volta che pensi di averlo afferrato, cambia colore.” Zio Rocco versò il liquido nei bicchieri. A contatto con il vetro, l’amaro iniziò a cangiare dal verde smeraldo al viola intenso, proprio come il cielo fuori. “Ma che gli hai messo dentro?”, chiese Giuseppe, ora genuinamente preoccupato. “Erbe, Giuseppe, erbe. Quelle che crescono solo qui, dove il cielo decide di fare quello che gli pare. Le raccogliamo durante la luna piena, quando il Cristo guarda verso il mare.” “E la melissa”, aggiunse Assunta con un sorriso professionale. “Per il sistema nervoso. Che con quello che vedi qui, ti serve.” “E mo’ che devo fare?” “Devi bere”, rispose Maria. “E smettere di fare domande.” Giuseppe guardò il bicchiere, poi il cielo fuori dalla finestra, poi di nuovo il bicchiere. “Se domani mi sveglio che parlo lucano, è colpa vostra.” “Magari!”, esclamarono tutti in coro. Alzarono i bicchieri. L’amaro brillava di una luce propria, come se avesse catturato un pezzo di quel tramonto impossibile. “A Marisdea”, disse zio Rocco. “A Marisdea”, risposero gli altri. Giuseppe bevve, e per un momento gli sembrò di capire. Non il cielo, non l’amaro, non quella stramba famiglia in cui era finito. Ma capì che forse, solo forse, non tutto doveva essere capito. “Allora?”, chiese Maria dopo un momento di silenzio. “Sa di… casa”, rispose Giuseppe, sorpreso dalle sue stesse parole. Zio Rocco sorrise. “Ecco, mo’ sei proprio dei nostri.” Fuori, il cielo aveva smesso di fare il pagliaccio ed era diventato di un blu profondo, quasi nero. Le stelle iniziavano a fare capolino, timide come turiste alla loro prima volta in Basilicata. La serata procedeva tranquilla quando dalla porta entrò Mimmo, il vigile urbano in pensione che tutti chiamavano “il meteorologo” perché sosteneva di prevedere il tempo basandosi esclusivamente sul dolore al ginocchio sinistro. “Rocco! Maria! Assunta! È successo il finimondo!” “Che è successo?”, chiese zio Rocco senza scomporsi. “Hanno rifatto l’asfalto sulla strada per Trecchina?” “Magari! No, è peggio: aprono un McDonald’s!” Il silenzio calò nel locale come una tagliola. Giuseppe vide i volti degli altri pietrificarsi in un’espressione che aveva visto solo una volta a Roma, quando avevano annunciato che il Derby si sarebbe giocato di lunedì alle 18.

“Ma dove?”, chiese Assunta, stringendo il bicchiere come se volesse strangolarlo. “Vicino al porto.” “Ma come un McDonald’s a Marisdea?”, intervenne Giuseppe. “Ma che ve preoccupate? Tanto qui non ce viene nessuno, con tutta la roba che cucinate.” Zio Rocco scosse la testa: “Giusè, tu ancora non l’hai capito come funziona qua. Non è questione del McDonald’s in sé. È che dopo arriva la catena di caffè americani, poi il sushi all-you-can-eat, e alla fine diventiamo come Rimini, ma senza i romagnoli che almeno quelli so’ simpatici.” “E che problema c’è? È il progresso, no?” Maria gli lanciò un’occhiata che avrebbe fatto appassire un ulivo secolare: “Il progresso? A Marisdea l’unica cosa che deve progredire è il tempo, e pure quello con calma.” “Ma almeno fate delivery?”, provò Giuseppe. “De… che?” “Il delivery. Il cibo a domicilio.” “Ah! Ma quello lo facciamo da cinquant’anni”, disse zio Rocco. “Solo che qua lo chiamiamo ‘Peppi’ e funziona così: tu chiami Peppi, lui ti porta quello che vuole lui, non quello che vuoi tu, e alla fine sei pure contento.” Giuseppe si mise le mani nei capelli: “Ma è la cosa più assurda che abbia mai sentito!” “Più assurda del cielo verde?”, chiese Assunta con un sorrisetto. “… ok, la seconda più assurda.” Zio Rocco si alzò con la solennità di un senatore romano: “C’è solo una cosa da fare.” Tutti trattennero il fiato. “Domani mattina vado dal sindaco e gli propongo di aprire un chiosco di panini col pescato del giorno proprio lì davanti. Li facciamo così buoni che quelli del McDonald’s se ne vanno da soli.” “E come fai a essere sicuro che funzionerà?”, chiese Giuseppe. “Perché i panini li farà Maria.” “Io?” “Tu. Con la ricetta segreta di tua nonna.” “Quella con le melanzane e il pesce spada?”, gli occhi di Maria si illuminarono. “Quella. E se non basta, ci mettiamo pure l’amaro.” Giuseppe guardò fuori dalla finestra. Il cielo era tornato normale, o almeno quello che a Marisdea passava per normale: un miscuglio di colori che sembrava disegnato da un bambino con troppa fantasia e poche matite. “Lo sapete che vi dico?”, disse dopo un po’. “Mi sa che ho capito perché il cielo qua fa tutto ‘sto casino.” “E perché?”, chiese Assunta. “Perché sa che sotto c’ha gente ancora più stramba di lui. Ed è geloso.” Risero tutti, mentre fuori la notte avanzava e le stelle si accendevano una ad una, come i lampioni di Roma quando l’ACEA si ricorda di pagare la bolletta. “Quindi non torni più a Roma?”, chiese Maria. Giuseppe sospirò: “Ma che devo tornà a fa’? Là il cielo è sempre uguale, il caffè sa de caffè, e soprattutto… non c’è Peppi che ti porta quello che vuole lui.” “E non c’è neanche il mio amaro”, aggiunse zio Rocco. “Quello soprattutto. Anche se ancora non ho capito che cazzo c’hai messo dentro.” “E mai lo capirai, Giusè. Mai lo capirai.” E mentre la serata scivolava verso la notte, Giuseppe realizzò che forse la vera magia di Marisdea non era nel cielo che cambiava colore, ma nel fatto che a nessuno importava davvero il perché lo facesse. In fondo, pensò, ci sono posti che non vanno capiti, ma solo bevuti. Come l’amaro di zio Rocco. Come la vita stessa. “Sapete che vi dico?”, concluse Giuseppe. “Mi sa che ho capito perché il cielo qua fa tutto ‘sto casino.” “E perché?”, chiese Assunta, curiosa. “Perché pure lui ha bevuto l’amaro di zio Rocco.” E questa volta risero tutti, anche il Cristo Redentore lassù sul monte, anche se nessuno poteva vederlo nel buio.

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