EDITORIALE – Sciamu a lu monti evviva \ Sciamu a truvà a Maria \ Maria del Sacro Monte \ Prega per noi Gesù.
Così cantavano i pellegrini, con le diverse inflessioni dialettali, che dai tanti borghi e paesi partivano in pellegrinaggio verso il Santuario del Sacro Monte di Novi Velia.
Fino a qualche decennio fa il pellegrinaggio a Novi Velia, nel comune di Vallo della Lucania (Sa), era una delle manifestazioni più importanti della religiosità popolare, da paragonare alla festa Patronale o alle principali festività cristiane. Rappresentava una delle pratiche della pietà popolare così radicate nei paesi lucani, da essere intimamente legati a usi, costumi e consuetudini quotidiani. Raccontarne gli elementi essenziali e recuperare le pratiche organizzative e attuative risulta oggi azione utile alla storia locale e a quella della pietà popolare. Tributo alle identità dei territori della Lucania.
Ancora oggi è possibile recuperare fonti orali importanti per la ricostruzione di queste pratiche, oggi in gran parte perdute.
Il pellegrinaggio, in molti paesi, avveniva in uno dei fine settimana del mese di agosto, quando nelle campagne i lavori agricoli rallentavano, prima degli impegni di settembre e quelli autunnali.
Il venerdì sera, al suono delle campane a festa, i pellegrini in partenza si radunavano nella Chiesa Madre del paese e con loro anche i fedeli che, pur non prendendo parte al pellegrinaggio, esprimevano con la presenza la loro devozione alla Madonna del Sacro Monte. L’arciprete dopo una preghiera, un fervorino e la benedizione, si poneva in testa al corteo che accompagnava i partenti fino alle ultime case del paese. A fianco del parroco si metteva il capo della “compagnia”, generalmente una persona anziana, con il bastone, l’asciugamano al collo per detergere il sudore durante la salita al monte. Si trattava di una guida esperta, doveva essere un conoscitore delle tradizioni, una persona che aveva partecipato da anni al pellegrinaggio e che aveva il compito di accompagnatore. Al capo compagnia si doveva obbedienza durante il pellegrinaggio. Subito dopo seguivano le “cente” portate in equilibrio sul capo dalle donne, le ciaramelle e le zampogne che con il loro suono accompagnavano il canto della numerosa compagnia di pellegrini.
I pellegrini attraversavano il paese: dalle porte spalancate, dalle finestre e dai balconi oltre all’augurio di un buon viaggio arrivava la raccomandazione di preghiere: “salutami la Madonna, ricordale quello che Lei già sa”. Fra canti, preghiere e raccomandazioni la compagnia arrivava alla fine del paese dove aspettavano in fila alcuni camion: sui cassoni erano stati messi i banchi presi in prestito da qualche chiesa, su un altro camion erano sistemati gli zaini che poi sarebbero passati sulle spalle ai piedi del monte, ricolmi di ogni ben di Dio necessario a saziare la fame dopo la fatica della salita. Nell’aria calda della serata di fine estate si sentiva il profumo dei salami, delle pizze rustiche, dei taralli appena sfornati, dei peperoni imbottiti, delle frittate e delle varie parmigiane, del pane fatto in casa; il vino era nei barili che lo avrebbero protetto dal caldo della prossima giornata. Siamo nel ‘900 lucano e il pellegrinaggio è anche un tripudio di sapori, oggi potremmo recuperare anche un ricettario del pellegrinaggio e nessun programma culinario televisivo reggerebbe il confronto.
Allo sparo dei fuochi pirotecnici i pellegrini salivano sui camion tra gli applausi e i saluti di chi restava in paese. La fila dei camion partiva. Abbracciati dal buio della notte si vedevano per un po’ di tempo le fioche luci dei fari e si sentiva il canto allegro e melodioso che si andava spegnendo tra i tornanti della strada polverosa. Coloro che non partecipavano tornavano un pò tristi alle case con la promessa “il prossimo anno andrò pure io”.
Il viaggio a bordo dei camion tra scossoni, sobbalzi e polvere terminava ai piedi del monte Gelbison, in territorio di Vallo della Lucania. I pellegrini scendevano dai mezzi di trasporto si accingevano alla salita, dopo aver tolto le scarpe iniziavano il cammino.
Sulla vetta del monte Gelbison a 1705 m s.l.m. sorge il santuario della Madonna del Monte Sacro di Novi Velia meta di pellegrinaggi da tempi immemorabili. Come per altri santuari di quella zona, esiste l’ipotesi di una costruzione della chiesa sui resti di un tempio pagano. Il toponimo Gelbison ricondurrebbe all’espressione araba “monte di Dio”. È probabile che i monaci basiliani, giunti nel meridione d’Italia furono i primi ad intraprendere l’opera di costruzione di un tempio dedicato alla Madonna su quel monte, tra il X e l’XI secolo. In epoca longobarda, infatti, molti monaci basiliani abitavano le tante grotte di cui il luogo è ricco e non è inverosimile che sentissero la necessità di costruire un luogo di culto sulla sommità della montagna che si staglia sul Cilento, il Vallo di Diano e il golfo di Salerno. Fu il vescovo di Capaccio, a cui era stata affidata la chiesa, che tra XII e XIII secolo ampliò la precedente costruzione facendola diventare un vero e proprio santuario. Sotto la giurisdizione dell’episcopio di Capaccio rimase fino al XIV secolo, quando la famiglia Marzano, dopo aver acquistato l’immobile, lo concesse alla congregazione dei “celestini”, un ordine religioso fondato da Pietro da Morrone nel 1248, chiamati originariamente “fratelli dello Spirito Santo”, e che dopo l’elezione nel 1294 del fondatore a Papa, con il nome di Celestino V, e la canonizzazione dello stesso, assunsero il nome di “celestini”.
I Celestini erano già presenti nel territorio con un monastero sorto per volere dei Marzano nella loro dimora, ceduta per essere trasformata in convento. I frati dell’ordine fondato dal Papa del gran rifiuto tennero la cura del Santuario fino al 1807, anno in cui la Congregazione dei Celestini venne soppressa nel Regno di Napoli e il Santuario tornò sotto la giurisdizione del vescovo di Capaccio.
La chiesa è un edificio a tre navate, ingrandita con dei lavori del 1908, insieme alla cappella di San Bartolomeo monaco, ad alcuni edifici come la foresteria, il convento e varie pertinenze formano il complesso immobiliare del Santuario.
Oggetto principale del culto dei pellegrinaggi è la statua lignea della Madonna. La Vergine seduta in trono regge sul braccio sinistro il Bambino Gesù, mentre la mano destra ha un atteggiamento che richiama il gesto del seminatore che sparge sugli uomini i celesti favori, il viso bruno allungato, gli occhi alla greca e la figura slanciata richiamano stilemi tipicamente bizantini.
Il Santuario anche oggi può essere raggiunto a piedi seguendo gli antichi sentieri che per secoli sono stati percorsi dai tanti pellegrini, o per le strade ormai adatte ai veicoli.
Una delle tradizioni del pellegrinaggio prevedeva che ogni pellegrino doveva portare una pietra da deporre nei pressi del santuario, dove ancora si può vedere un cumulo di pietre sedimentatesi con il passare del tempo. Da questo monticello iniziano le stazioni della Via Crucis in maioliche del 1700 che giunge fino al complesso degli edifici del Santuario.
Come tradizione dei santuari mariani, il ritrovamento della statua lignea è al centro di una narrazione tramandatasi nel tempo. Una leggenda racconta che dei pastori avevano l’idea di costruire una chiesetta dedicata alla Madonna sulle falde del Gelbison, ma il lavoro non procedeva perché ciò che si edificava durante il giorno, allo spuntare del sole del giorno seguente si trovava disfatto. I pastori allora decisero di vegliare la notte per cogliere sul fatto chi veniva a distruggere le loro fabbriche durante la notte. Portarono con loro un agnello da macellare e per cibarsi delle sue carni durante la veglia notturna. Quando stavano per ammazzarlo il piccolo agnello riuscì a scappare dalle loro mani e si diede alla fuga, i pastori lo inseguirono fin sulla cima della montagna. L’agnello si fermò davanti a un muro che chiudeva l’ingresso di una grotta. Abbattuto il muro, all’interno della grotta, trovarono la statua della Vergine Maria. I pastori allora si recarono dal vescovo di Capacccio per raccontare l’accaduto e il Vescovo salì con loro sul monte a verificare il racconto. Resosi conto che quanto aveva ascoltato dai pastori rispondeva a verità voleva benedire la statua e la grotta, ma una voce dal cielo proclamò che già quel sito era stato benedetto dagli Angeli.
Significativa e indicativa per le tradizioni locali è un’altra leggenda che narra di due cavalieri giunti sulla sommità del monte: uno entrò in chiesa a ringraziare la Madonna, il compagno invece restò fuori a cavallo e prese a deridere il cavaliere che era in chiesa per il suo gesto di ringraziamento alla Madonna, a suo dire poco consono ad un guerriero. Mentre continuava ad insultare il collega, improvvisamente il cavallo si imbizzarrì e galoppando verso il precipizio di fronte alla chiesa spiccò un salto nel vuoto. Il cavaliere davanti al pericolo cambiò subito idea e implorò la Madonna per la sua salvezza. Il cavallo miracolosamente si trovò su uno spuntone di roccia che sporge oltre il ciglio del burrone e, ritornato calmo e mansueto, fermò la sua corsa pericolosa. Da quel giorno quel pinnacolo di roccia prese il nome di “ciampa di cavallo”, dove i pellegrini lanciano sassi o monetine, a seconda se il lancio riesce ancora oggi si traggono degli auspici: se il lancio riesce ad una giovane donna nubile acquista la certezza di ritornare a breve al santuario felicemente sposata, se invece una persona anziana saprà colpire il bersaglio farà sicuramente ritorno al santuario l’anno seguente.
Intanto, per la nostra comitiva di pellegrini è arrivato il momento di riprendere il viaggio di ritorno, con un poco di malinconia si accingono a fare le ultime cose, l’acquisto di qualche “ricordino” da portare a casa, un ultimo saluto alla Madonna con la promessa di ritornare il prossimo anno, un’ultima raccomandazione circa i loro desideri e si inizia la discesa del monte con gli zaini ormai svuotati dalle varie prelibatezze consumate nei giorni di permanenza al Santuario, gli uomini si sono anche confessati e comunicati, cosa che difficilmente fanno in paese, e cantando si affronta la discesa.
Maronna mo mmi nni vavu e nun sacciu chi t’aggia rici,
ti ricu n’Avemmaria e statti bona Maronna mia.
Ora ce ne andiamo alle nostre case e chi ngi po trasi senza di Te,
Maria risponde ed io vi accompagno e sotto il mio manto vi coprirò.
L’arrivo nei pressi del paese viene annunciato con lo scoppio di mortaretti, l’arciprete che si è posto in attento ascolto, al segnale fa suonare le campane e con una processione di fedeli li va ad accogliere, la “compagnia” ripercorre le strade del paese allegra e festante ritornando in Chiesa Madre, per poi ritornare alle case dove sono in attesa parenti e amici che aspettano il dono dell’immaginetta o del quadretto acquistato al santuario e, soprattutto, si preparano ad ascoltare il racconto del viaggio. E già i vari racconti diventano storia e storie di quelle giornate vissute accanto alla Madonna, narrazioni che i pellegrini continuano a ripetere per filo e per segno senza omettere nessun particolare. Anzi aggiungedovi qualcosa. Così tra storia e leggenda si tramanda e si narra del Monte di Novi e della Sua Vergine Santa, perché noi dovremmo smarrire queste storie ?