EDITORIALE – Sandor Marai, probabilmente il più grande scrittore ungherese, visse a Salerno, per lo più ignorato dalla elite culturale locale, dal 1968 al 1980. Da questo fatto storico prende ispirazione il romanzo “Il Penultimo dono – la terza via di Sandor Marai” (Robin Edizioni, 129 p., € 14,00) di Maurizio Pintore.
L’ispirazione più intima del romanzo, scorrendo le pagine che rapiscono attraverso una scrittura che armeggia tra il bombardamento emozionale di frasi brevi e una lingua che mischia in modo magistrale il lessico comune contemporaneo all’aulico registro letterario, sembra nascere da un altro fatto storico: la morte di Marai. Il grande scrittore pose fine alla sua esistenza sparandosi un colpo di pistola, nel 1989, in California, non potendo sopportare di vivere senza la moglie Lola, il figlio adottivo Janos, dovendo convivere con l’idea di non aver ricevuto “l’ultimo dono”: morire prima di loro o con loro. Nel romanzo di Pintore, la cupa fine dello scrittore si trasforma in una vivace policromia di una storia fatta di solidarietà, intensi rapporti umani e la bellezza della narrazione di una speranza (o forse della Speranza).
Il libro dell’autore che vive a Salerno vicino “ai luoghi di Sandor Marai”, di professione medico, ha una chiave di lettura che esalta l’importanza della letteratura. La proverbiale capacità della letteratura di essere un moltiplicatore di esperienza, si esalta tanto nella trama del romanzo quanto nel racconto della vita di Marai che si dipana dalla giovinezza in Ungheria, passando per il suo esilio volontario che lo vede cittadino cosmopolita con la sua amata Lola, per approdare sulle coste illuminate del mediterraneo campano, Napoli e poi Salerno. Infine, la California, dove nella realtà si concluse la vita del grande scrittore che per tutta la sua esistenza continuò ad utilizzare solo l’ungherese per le sue opere. Nel romanzo di Pintore, invece, la California è terra di un nuovo inizio. L’autore forza la terza via della letteratura e fa si che un incontro casuale in terra americana riporti Marai nella Salerno tanto amata, al porticciolo di Pastena. Un ritorno che rompe il silenzio e la tristezza, accende la solidarietà non solo come sogno “nobile”, ma come “necessità pressante, un essere o non essere, una questione di vita o di morte”. E la morte, rappresentata da una rivoltella conservata in un comodino, questa volta non vince, si ferma sulle calde acque del mare di Salerno e si scioglie in un abbraccio tra un padre e un figlio che non si erano mai conosciuti.
Il “Penultimo dono” è un romanzo denso, importante, notevole per forza espressiva e capacità introspettiva. È un romanzo sull’ “accettazione” che non è disperata rassegnazione ma “capire senza spiegazioni”. L’accettazione come accoglienza della realtà che accomuna quasi con senso religioso i protagonisti del libro, i quali si ritrovano a rinsaldare relazioni disperse grazie a Marai diventato, nella sua vecchiaia pensosa di morte, innesco di nuova vita. Ed è un romanzo sulla “senilità” che nel terrore di “una assistenza sanitaria mercenaria”, ritrova la vita nella capacità di incontrare l’altro. Il racconto di Pintore parla di vite e ti sembra di toccarle nella loro libertà di espressione (“la libertà di un uomo viene dalla sua cultura”). Ne parla con la forza della parola cesellata e ricercata tra le esalazioni di vite comuni, troppo spesso incapaci di comunicare: è un romanzo sul dramma della “incomunicabilità” umana, i protagonisti sono tutti “mine sepolte sotto metri di terreno della incomunicabilità”. Ma, la letteratura ha questa forza vitale, rendere la parola strumento concreto di creazione, la letteratura che diviene “una malattia immunizzante da tutte le altre”. Leggendo il “Penultimo dono” ci si innamora di Sandor Marai, grande merito di Maurizio Pintore. Ma, leggendo il “Penultimo dono” si resta rapiti da “fotografie di vita sublimate in parola scritta”, convincendosi che è proprio vero che la letteratura “prepara alla vita”.