Il Prezzo del Potere

di Charles Laval

James osservava la città dal quarantesimo piano della Canary Wharf Tower, le mani intrecciate dietro la schiena, lo sguardo fisso sulle luci di Londra che si accendevano nel crepuscolo invernale. Ventotto anni di carriera in quella società di consulenza, e finalmente era arrivato. Direttore generale. “Il tè, signore?” La voce di Martha, la sua nuova assistente, lo riportò alla realtà. “Grazie, Martha. Puoi andare.” Martha uscì silenziosamente, come si confaceva al suo ruolo. James sorrise amaramente ripensando a come, solo tre mesi prima, occupava ancora il suo vecchio ufficio al trentottesimo piano. Come tutto era cambiato dopo quella riunione del consiglio di amministrazione. Il vecchio direttore generale, Richard Morrison, era stato il suo mentore. Un uomo brillante, onesto fino all’ossessione, che aveva sempre messo il bene dell’azienda davanti a tutto. Forse troppo onesto. Quando aveva scoperto le irregolarità nei conti della filiale asiatica, non aveva esitato a denunciare tutto al consiglio. James ricordava perfettamente il momento in cui Richard gli aveva mostrato i documenti. “Guarda qui, James. Stanno falsificando i bilanci da anni. Dobbiamo fare qualcosa.” Ma James aveva visto anche altro in quei documenti: i nomi. I collegamenti. Le persone coinvolte. Persone potenti. Persone che sedevano nel consiglio di amministrazione. La scelta era stata semplice, quasi banale nella sua crudeltà: lasciare che Richard presentasse il suo rapporto al consiglio, o avvertire preventivamente le persone giuste. James aveva scelto la seconda strada. Il tè era ancora fumante sulla scrivania. James lo prese, assaporando il bergamotto dell’Earl Grey. Richard ora era in pensione anticipata in una casa nel Devon, la sua reputazione professionale distrutta da accuse di incompetenza e cattiva gestione. E lui, James, sedeva nel suo ufficio. Il telefono squillò. Era il presidente del consiglio. “James, ottimo lavoro con la presentazione di oggi. Il consiglio è molto soddisfatto della tua gestione della crisi asiatica.” “Grazie, signore. Ho solo fatto ciò che era necessario per l’azienda.” “Lo sappiamo, James. Lo sappiamo bene.” La chiamata si chiuse. James tornò alla finestra, osservando il proprio riflesso nel vetro. Il completo perfettamente stirato, la cravatta di seta, i capelli grigi perfettamente tagliati. L’immagine del successo. Nel riflesso, per un attimo, gli sembrò di vedere il volto deluso di Richard. Ma fu solo un attimo. Ormai aveva imparato a non farci caso. Il potere ha un prezzo, si disse. E lui aveva scelto di pagarlo. Le luci della città continuavano a brillare indifferenti, mentre la neve iniziava a cadere leggera su Londra. Un altro giorno stava finendo nella City, dove le decisioni che contano non vengono prese nelle sale riunioni, ma nei silenzi, nelle omissioni, nelle piccole vigliaccherie quotidiane che costruiscono carriere e distruggono persone. James finì il suo tè. Era diventato freddo. Il mattino dopo, James arrivò in ufficio prima dell’alba, come sua abitudine. Il palazzo era quasi deserto, popolato solo da addetti alle pulizie che si muovevano silenziosi come fantasmi tra i corridoi. “Buongiorno, signor Williams,” mormorò Abdul, il guardiano notturno, abbassando rispettosamente lo sguardo. James rispose con un cenno distratto del capo. Prima della promozione si fermava sempre a chiacchierare con Abdul, che gli raccontava della sua famiglia in Pakistan. Ora queste chiacchiere gli sembravano inappropriate per la sua posizione. Entrando nel suo ufficio, trovò una busta sulla scrivania. Non c’era mittente. Dentro, una fotografia: lui e Richard a pranzo, tre anni prima, in un ristorante italiano a Mayfair. Sul retro, scritto a mano: “Mi manchi, vecchio amico.” James si lasciò cadere sulla poltrona in pelle italiana, la fotografia ancora tra le mani tremanti. Richard sapeva. Doveva sapere. Non era tipo da mandare messaggi sentimentali. Il telefono dell’ufficio squillò, facendolo sobbalzare. “Pronto?” “James.” La voce di Richard. “Ho pensato molto a te ultimamente.” “Richard… come stai?” “Oh, sorprendentemente bene. Il Devon è bellissimo in questa stagione. Helen ha un piccolo orto. Coltiviamo pomodori.” Il silenzio si allungò tra loro, pesante di parole non dette. “Perché mi chiami, Richard?” “Ho trovato altre carte, James. Documenti che non avevo mostrato a nessuno. Sulla filiale di Singapore. Sui trasferimenti di denaro. Sui nomi.” James sentì il sangue gelarsi nelle vene. “Richard…” “Non ti preoccupare. Non farò nulla. Ormai sono troppo vecchio per queste battaglie. Ma volevo che tu sapessi che so. Che ho sempre saputo.” “Non capisci, dovevo…” “No, James. Non dovevi. C’è sempre una scelta. Sempre. Anche quando ci convinciamo del contrario.” La linea cadde. James rimase immobile, fissando la città che si svegliava sotto di lui. Le prime luci dell’alba tingevano di rosa i grattacieli, creando l’illusione di un mondo più pulito, più onesto di quello che realmente era. Martha entrò con il suo tè del mattino. “Il suo Earl Grey, signore. E il consiglio ha anticipato la riunione alle nove. Vogliono discutere della possibile acquisizione a Singapore.” James annuì meccanicamente. Singapore. Sempre Singapore. “Martha, per favore, annulla tutti i miei appuntamenti di oggi.” “Anche la riunione del consiglio, signore?” James guardò la fotografia sulla scrivania. Lui e Richard sorridevano, ignari del futuro che li attendeva. Due amici. Due uomini onesti. O almeno, uno di loro lo era ancora. “No,” disse infine. “La riunione del consiglio resta. È il mio dovere, dopotutto.” Martha uscì, e James rimase solo con il suo tè, la sua coscienza, e una fotografia che lo accusava in silenzio. Fuori, Londra continuava la sua danza quotidiana di potere e ambizione, indifferente ai piccoli drammi umani che si consumavano nelle sue torri di vetro e acciaio.

La sala del consiglio al quarantunesimo piano era un monumento all’opulenza corporativa: legno di noce brasiliano, vetrate a tutta altezza, sedute in pelle da tremila sterline l’una. James osservava i membri del consiglio prendere posto, ognuno accompagnato dal fruscio di completi su misura e dal tintinnio di gemelli in platino. Sir Edward Blackwood, presidente del consiglio, sedeva a capotavola come un monarca in miniatura. Alla sua destra, Margaret Chen, responsabile delle operazioni asiatiche, sistemava con cura studiata i suoi documenti. James conosceva quella coreografia: aveva assistito a centinaia di riunioni come questa, ma mai da questa posizione. “Signori, signore,” iniziò Sir Edward, “siamo qui per discutere l’acquisizione di Singapore. James, vuoi illustrarci la situazione?” James si alzò, conscio degli sguardi che convergevano su di lui. Aprì la cartellina che Martha gli aveva preparato, ma le parole sulla carta sembravano danzare davanti ai suoi occhi. “L’acquisizione della Meridian Tech di Singapore rappresenta un’opportunità unica,” iniziò, la voce ferma nonostante il turbamento interiore. “I nostri analisti prevedono sinergie per oltre 200 milioni di sterline nei primi due anni.” Margaret Chen interruppe con un sorriso mellifluo: “E naturalmente, la struttura dell’operazione sarà quella che abbiamo… discusso in precedenza?” James sapeva esattamente cosa intendesse. La stessa struttura che Richard aveva scoperto, lo stesso sistema di scatole cinesi e società fantasma che aveva portato alla sua caduta. “In realtà,” si sentì dire James, “ho alcune perplessità sulla struttura proposta.” Il sorriso di Margaret si gelò. Sir Edward inarcò un sopracciglio. “Perplessità?” La voce del presidente era morbida come velluto, ma con un sottofondo d’acciaio. “Sì. Ho rivisto i documenti questa mattina. La struttura proposta espone la società a rischi significativi. Rischi che…” James estrasse dalla sua valigetta una cartellina rossa, “ho dettagliato in questo rapporto.” Un silenzio tombale calò sulla sala. James poteva sentire il proprio cuore battere nelle orecchie. “James,” disse Sir Edward, ogni sillaba accuratamente pesata, “forse dovremmo discutterne in privato. Dopo la riunione.” “No,” rispose James, sorprendendosi della propria fermezza. “Penso che dovremmo discuterne ora. Tutti insieme. Come faceva Richard.” Il nome cadde nella stanza come un sasso in uno stagno. Margaret Chen si irrigidì visibilmente. Due membri del consiglio si scambiarono occhiate eloquenti. “Richard Morrison,” continuò James, “aveva ragione. E tutti in questa stanza lo sappiamo.” Sir Edward si alzò lentamente. “James, ti rendi conto di cosa stai facendo?” “Perfettamente.” James distribuì copie del suo rapporto a ogni membro del consiglio. “Sto facendo quello che avrei dovuto fare tre mesi fa.” “La tua carriera…” iniziò Margaret. “La mia carriera è costruita sulla distruzione di un uomo onesto,” la interruppe James. “È tempo di rimediare.” Sir Edward lo fissò per un lungo momento. “Sai che non uscirai da questa stanza come direttore generale.” “Lo so,” rispose James, e per la prima volta da mesi, si sentì sorridere. Un sorriso vero, non quello studiato che si era allenato a mostrare nelle riunioni importanti. “Ma forse ne uscirò come uomo.” Iniziò a illustrare il suo rapporto, metodicamente, punto per punto. Mentre parlava, vedeva le espressioni cambiare: shock, rabbia, rassegnazione. E in alcuni, i più giovani, qualcosa che assomigliava al rispetto. Fuori dalla finestra, la neve aveva ricominciato a cadere su Londra, coprendo lentamente la città con un manto di purezza illusoria. Ma dentro quella stanza, per la prima volta dopo tanto tempo, qualcosa di autentico stava accadendo.

Due mesi dopo, James attraversava St. James’s Park, una semplice ventiquattrore al posto della costosa valigetta di pelle italiana. Il suo completo non era più di Savile Row, ma restava dignitoso. Come lui, in fondo. Le dimissioni erano state inevitabili, ma il suo rapporto aveva scatenato un terremoto nel consiglio di amministrazione. Sir Edward si era “ritirato per motivi personali”, Margaret Chen era stata discretamente allontanata, e i giornali finanziari avevano parlato per settimane di “ristrutturazione ai vertici” e “nuova governance”. Si sedette su una panchina, quella stessa panchina dove anni prima Richard gli offrì il suo primo incarico importante. Estrasse dalla ventiquattrore un panino preparato a casa – un altro cambiamento nelle sue abitudini, dopo anni di pranzi di lavoro in ristoranti stellati. “Posso unirmi a te?” James alzò lo sguardo. Richard era in piedi davanti a lui, con un sorriso sereno sul volto segnato dal tempo. “Richard… non sapevo fossi a Londra.” “Il consiglio mi ha chiamato. Vogliono che torni come consulente per la ristrutturazione.” Richard si sedette accanto a lui. “Ho letto il tuo rapporto. Bel lavoro.” James guardò il suo panino, improvvisamente imbarazzato. “Ho solo fatto quello che avresti fatto tu. Con tre mesi di ritardo.” “Meglio tardi che mai.” Richard estrasse dalla sua borsa due tazze di caffè da asporto. “Earl Grey. Lo bevi ancora, vero?” James accettò la tazza con un sorriso. “Alcune abitudini sono dure a morire.” “E altre meritano di morire,” disse Richard. “Come il pensare che il potere sia più importante dell’integrità.” Rimasero in silenzio per qualche minuto, bevendo il loro tè e osservando i turisti che scattavano foto a Buckingham Palace in lontananza. “Ho un’offerta per te,” disse infine Richard. “Sto avviando una società di consulenza etica. Piccola, indipendente. Niente giochi di potere, niente compromessi morali. Solo lavoro onesto.” “Non sono sicuro di essere la persona giusta,” rispose James. “Il mio curriculum recente…” “Il tuo curriculum recente mostra un uomo che ha scelto l’integrità quando contava davvero.” Richard si alzò, porgendogli un biglietto da visita. “Pensaci. L’ufficio è a Bristol. L’aria è più pulita lì.” James guardò il biglietto, poi la città intorno a lui. Londra brillava nella luce del pomeriggio, maestosa e imponente come sempre. Ma ora la vedeva in modo diverso. Non più come una scala da scalare a ogni costo, ma come un monito di ciò che il potere può fare alle persone. “Bristol,” disse, assaporando la parola. “Potrebbe essere un bel cambiamento.” Richard annuì. “Il potere non è tutto, James. A volte, il vero potere sta nel saper dire no al potere stesso.” Si strinsero la mano, e Richard si allontanò tra la folla di pendolari e turisti. James rimase sulla panchina ancora per un po’, il biglietto da visita tra le dita e il sapore dell’Earl Grey sulle labbra. La neve aveva smesso di cadere su Londra, e il sole faceva capolino tra le nuvole. Era tempo di ricominciare.

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