EDITORIALE – Su queste pagine digitali l’argomento è stato già affrontato, anche a livello di resoconto giudiziario locale, ma credo che in questi giorni in cui le cronache sono “intasate” dal coronavirus è opportuno non perdere l’occasione di fare un approfondimento ulteriore.
Intanto, si ribadisce che la Corte Costituzionale ha depositato il 26 febbraio scorso le motivazioni della sentenza n. 32/2020, con la quale la Consulta ha dichiarato illegittima l’applicazione retroattiva della legge n. 3/2019 (cd. “spazzacorrotti”) nella misura in cui estendeva alla maggior parte dei reati contro la pubblica amministrazione le preclusioni alle misure alternative alla detenzione, già previste dall’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario per i reati di criminalità organizzata.
Ciò significa che, da un lato, abbiamo un Legislatore che si ostina a ricorrere alla sanzione carceraria come strumento di punizione, se non addirittura di “vendetta sociale” (cfr. Vittorio Manes, Professore di Diritto Penale all’Università di Bologna sul Sole di oggi), e, quindi, abbiamo un Legislatore che contravviene al principio secondo cui la privazione della libertà è legittima solamente se limitata al “minimo sacrificio necessario” (non è un mero enunciato la buona regola secondo cui le alternative extramurarie sono più compatibili alle istanze rieducative del reo).
E, dall’altro lato, abbiamo un Giudice delle Leggi che è costretto a sanzionare con l’illegittimità, perché non conforme alla Carta Fondamentale e ai princìpi della CEDU, la presunzione legislativa di pericolosità sociale di chi commette reati contro la P.A., che sola giustificherebbe il più severo regime carcerario, presunzione non corroborata dai fatti e neanche da mere regole empiriche, ma decisa solo per ragioni di propaganda politica.
Per la verità la Consulta ha fatto anche un passo in più, provvedendo anche a “correggere” la dottrina prevalente, la Corte di Cassazione (su tutte le Sezioni Unite nella sentenza n. 24561/2006) e gli stessi orientamenti pregressi del Giudice delle Leggi.
Infatti, sino ad oggi si era sempre erroneamente sostenuto (cfr. fatta eccezione ad esempio per Bartolomeo Romano, Professore di Diritto Penale all’Università di Palermo) che le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, sarebbero soggette al principio “tempus regit actum” e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall’articolo 2 del Codice penale, e dall’articolo 25 della Costituzione (tra cui il divieto di retroattività delle norme successive più sfavorevoli).
È, allora, ancora più rimarchevole questo arresto della Corte Costituzionale in quanto si muove al di là dei formalismi e va “al cuore stesso dello Stato di diritto”.
Interessante è poi il richiamo nel corpo della motivazione (redatto dal Professore di Diritto Penale, Francesco Viganò) alla giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, formatasi, con il caso Calder contro Bull, a solo qualche anno di distanza dalla proclamazione del divieto di “ex post facto laws” nella Costituzione federale.
Scrivevano i giudici federali americani che il divieto in parola garantisce l’individuo da possibili abusi da parte del potere legislativo, potere che ha da sempre la tentazione di determinare o aggravare “ex post” pene per fatti già compiuti, con leggi che di fatto sono «sentenze in forma di legge».
Per il virus del populismo che da anni infetta il nostro Legislatore riusciremo a trovare un vaccino che possa armonizzare il diritto penale e le garanzie costituzionali?