EDITORIALE – Nei giorni scorsi, su tutti i quotidiani nazionali e sui siti web, ha imperversato la polemica sul rapporto tra sentenze e scienza, tra verità processuale e verità scientifica. Nelle settimane precedenti, la cronaca giudiziaria si era focalizzata sui trecento e passa arresti, custodie cautelari in carcere o ai domiciliari, eseguiti in Calabria dal Procuratore Antimafia Gratteri e sulle esternazioni del Consigliere di Cassazione Davigo su temi quali prescrizione, durata del processo e multe per avvocati che si “ostinano” nella difesa dei loro assistiti insistendo a proporre impugnazioni, appelli e ricorsi.
In questa sede, però, non voglio addentrarmi in questioni filosofiche ed epistemologiche che sono state già trattate da altri meglio di come possa fare io in queste poche righe.
Invece, voglio ragionare di quella che è la patologia più grave di ogni sistema processuale penale: gli errori giudiziari, patologia forse ineliminabile perché l’imperfezione è insita nella natura umana.
Il dilemma è sempre esistito: già nel Digesto Giustinianeo veniva riportato il tradizionale brocardo “in dubio pro reo” cioè “nel dubbio, (si giudichi) a favore dell’imputato”, volendo sottolineare che quando non si ha la certezza che il reato sia attribuibile all’imputato (ad esempio per insufficienza di prove) è auspicabile che il giudice accetti il rischio di assolvere un colpevole piuttosto che quello di condannare una persona innocente.
Anche Voltaire diceva: “È meglio rischiare di salvare un colpevole, che condannare un innocente.”
Per i Gratteri e i Davigo, e soprattutto per i loro estimatori giustizialisti in sedicesimo, i Magistrati, invece, non possono commettere errori e queste massime non contano, gli appelli e i ricorsi sono inutili, anzi costituiscono dannosi ostacoli per la speditezza del processo, per arrivare prima alla condanna. Perché si sa, se uno è indagato o imputato qualcosa deve averla pure fatta…
Eppure, dei trecento arrestati da Gratteri, un centinaio, dopo i ricorsi degli avvocati, sono già liberi a distanza di pochi giorni… eppure il Sindaco di Bibbiano, pure lui, a distanza di mesi, è libero dopo che la Cassazione ha stabilito che non vi erano i presupposti per i domiciliari e per altre misure cautelari… eppure la sentenza della Corte d’Appello di Torino sulla correlazione tra tumori e il telefonino è stata ampiamente criticata perchè non rispettosa delle conclusioni raggiunte dalla comunità internazionale attraverso il metodo scientifico…
Insomma, anche i giudici possono sbagliare e solo le procedure apprestate dalla Legge, dalla Costituzione e dalla Scienza possono servire a porre rimedio agli errori. Anche se non sempre.
Altrimenti, è preferibile tentare la sorte e ispirarci al giudice Brigliadoca, descritto da Rabelais nel “Gargantua e Pantagruele”, che usava questo criterio: “quando ho ben veduto, riveduto, letto, riletto, ripassato e sfogliato le querele, citazioni, comparizioni, commissioni, informazioni, pregiudiziali, produzioni, allegazioni, interdetti, contraddetti, istanze, inchieste, repliche, duplicati, triplicati, scritture, biasimi, accuse, riserve, raccolte, confronti, contradditorî, libelli, documenti apostolici, lettere reali, compulsazioni, declinazioni, anticipatorie, evocazioni, invii, rinvii, conclusioni, non luogo a procedere, accomodamenti, rilievi, confessioni, atti e altrettali amminicoli e droghe, da una parte e dall’altra, come deve fare il buon giudice, allora poso da una parte della tavola del mio gabinetto tutti gl’incartamenti dell’imputato e getto i dadi per lui dandogli la precedenza della sorte… Ciò fatto poso gl’incartamenti del querelante. E parimenti getto di nuovo i dadi…. do sentenza favorevole a colui che primo arriva al punto richiesto dalla sorte giudiziaria, tribuniana, pretoriale dei dadi. Così comanda il nostro diritto”.
P.S.: delle quattromila sentenze emesse, nel corso della sua lunga carriera, da Brigliadoca con il suo “metodo” dei dadi, solo una è stata riformata perché ritenuta ingiusta!