Sant’Angelo le Fratte, valle del Melandro, provincia di Potenza. Qui, dove il fiume è ancora un corso sottile prima di farsi tributario del Tanagro nelle piane campane che conducono al mare, in queste forre sui cui versanti paesi arroccati si scrutano l’un l’altro, misurando l’orizzonte della propria solitudine, è arrivata l’America. Letteralmente. Quell’America – o “Merica”, secondo la pronuncia di chi partiva – che un tempo molti degli abitanti di questa incantevole area andavano a cercare oltreoceano, spostando nel cosiddetto “nuovo mondo” radici che mai si recidevano del tutto, e dando vita a genealogie che, più che alberi, nel corso dei decenni sono diventate piante rampicanti capaci di coprire vaste pareti della consanguineità.

Così, negli ultimi lustri, in particolare il decennio appena trascorso con un impulso sostanziale dato dalla pandemia, alcune di quelle foglie d’edera, spinte dal vento della crisi globale e della ricerca di nuove opportunità ormai latenti in quella che una volta per antonomasia era la terra delle possibilità, sono tornate laddove è rimasta qualche apice radicata, donando nuova linfa non solo alla propria memoria, ma a tutta la comunità. E determinando una catena migratoria all’inverso che sta conducendo in direzione Sant’Angelo anche persone che non hanno nessun legame familiare con questa terra, però attratte da una favorevole organizzazione burocratica nella gestione delle domande di cittadinanza, cosicché richiedono la residenza nominando il comune lucano competente nella gestione dell’iter. Ma poi succede che, una volta arrivate, rimangono sedotte dai tempi lenti del luogo e dall’affabilità ricettiva dei santangiolesi, tanto che molte di loro decidono di fermarsi anche dopo l’ottenimento dell’agognato riconoscimento.
In questo modo Sant’Angelo, con appena 1300 abitanti, vive un nuovo piccolo rinascimento, dopo quello turistico alimentato dai celebri murales che abbelliscono il centro storico. Ne è ben consapevole il suo vulcanico primo cittadino, Michele Laurino, che per tutto il tempo in cui mi accompagna a vedere cosa si è realizzato in paese, ci tiene a sottolineare che non si tratta di un momento estemporaneo, ma del frutto di trent’anni di impegno al servizio di questa comunità.
Mentre usciamo dalla sala del Museo del Viaggiatore in cui si rappresenta, con esperienza immersiva, la poderosa vicenda intellettuale del vescovo spagnolo Juan Caramuel, che proprio qui impiantò una delle prime tipografie dell’Italia meridionale, incontriamo Paula, giovane giunta da San Carlos de Bariloche, città posta sul confine andino tra Argentina e Cile, da poco più di un mese in paese. Sembra però già molto a suo agio, soprattutto davanti al bar nei pressi della chiesa madre, che oggi pullula di gioventù: sono infatti presenti anche i giovani del CinemadaMare di Franco Rina, provenienti da ogni parte del mondo e a Sant’Angelo per un periodo di residenza. Paula rappresenta la tipologia più numerosa tra coloro che arrivano qui per sbrigare la pratica della cittadinanza: non ha avi locali, vi è giunta col passaparola che gli argentini fanno tra di loro. Ama il luogo e la natura che lo circonda, teatro delle sue lunghe passeggiate quotidiane. È il luogo ideale per fare yoga, mi dice. Lei non si tratterrà, ha intenzione di raggiungere il fidanzato che è in Svezia, per poi cercare il posto giusto in cui trovare una buona occasione professionale. È una cuoca, e qui in paese ci sono concorrenti non da poco, anche un celebre “chef narrante”. Però ha tutta l’intenzione di sfruttare pienamente i mesi che serviranno a completare la pratica per entrare nel nuovo mood che si vive su questa sponda del Melandro.
Guillerme, invece, è più determinato. A Sant’Angelo ha trovato quello che cercava: un luogo dell’anima, una popolazione accogliente, un capoluogo (Potenza) da qui facilmente raggiungibile, che funge da centro di servizi. E poi la tranquillità, quella che una megalopoli come Buenos Aires (in cui si era trasferito dalla sua Córdoba) non poteva più garantire né a lui, né alla sua famiglia. È un informatico, e il suo lavoro può svolgerlo a distanza dalle sedi fisiche in cui risiedono le aziende con cui collabora. «Ma alla mia età la posizione economica me la sono già costruita», mi confida. «Ora è il tempo di lavorare per vivere, e non più il contrario. E qui posso farlo». A breve lo raggiungeranno la moglie e un figlio ventenne, rimasti in Argentina. Una scelta non semplice, gli faccio notare, soprattutto per il ragazzo. «No, perché è stato proprio lui il motore di questo cambiamento. Mio figlio è quello che ha insistito di più». Passeranno l’estate a conoscere la Basilicata, gli dico che se vuole lo aspetto a Lauria per mostrargli l’area sud. Ne è entusiasta. Chissà quanto durerà questo incanto. Io mi auguro, ovviamente, il più possibile: per i suoi sogni, e per quelli dei santangiolesi, che indubbiamente ne hanno un piccolo vantaggio economico, fosse solo per le case che vengono fittate. Egoisticamente, però, me lo auguro anche per tutti noi lucani, che in questo modo, forse, ci sentiremo per un po’ al centro di un “mondo” che per tanti, ora, è davvero il Nuovo Mondo. Che nemesi.