EDITORIALE – Erano gli anni ’70. Dopo quattro anni d’insegnamento in scuole serali (la didattica a favore degli adulti lavoratori e analfabeti), finalmente ricevetti la comunicazione del superamento del concorso magistrale e dell’immissione in ruolo.
Ripensando alla mia prima esperienza lavorativa, indelebile nella mia mente è il ricordo di uomini e donne che, dopo una giornata di lavoro, si sedevano nei banchi e cercavano di capire, con non poche difficoltà, come scrivere e dare voce a dei segni grafici che, combinati in una certa maniera, si trasformavano in suoni, parole, frasi e pensieri! Fu per me un’esperienza non facile: ero giovane e inesperta; cercavo in tutti i modi di facilitare l’apprendimento ma più di tutto di non annoiare quelle persone più grandi di me, la maggior parte delle quali mostrava i segni della stanchezza di una giornata di duro lavoro.
Eravamo alla fine dell’estate quando mi fu comunicata l’assegnazione della sede di titolarità nella scuola di Bruscate, nel Comune di Castelsaraceno.
Trepidante ed emozionata mi recai con mio marito nella contrada dove si trovava la scuola.
Percorremmo la strada che porta a Cogliandrino e di qui iniziammo a scendere per una stradina piena di curve, circondata da una ridente e verde vallata.
Oltrepassata la contrada Frusci, ci ritrovammo lungo la strada che porta a Moliterno.
Dopo una curva a gomito leggemmo su un cartello “Bruscate”.
Parcheggiata l’auto, ci inerpicammo lungo un viottolo stretto e ripido che portava ad una collinetta in cima alla quale vi erano due case ed un locale basso simile ad una stalla. Intorno a noi nessun segno di vita. Le porte delle due fatiscenti abitazioni erano chiuse. Mentre guardavo intorno alla ricerca della scuola… vidi, incollate al vetro di una finestrella del locale che aveva tutte le sembianze di una stalla, una rondine e una nuvoletta di carta.
“Eccola!” esclamai “è quella la scuola!”
Nello stesso momento si aprì la parte superiore della porta di una delle due abitazioni e si affacciò una giovane donna.
Sorridendo mi avvicinai, ma, a pochi metri di distanza, la ragazza chiuse la porta.
Guardai perplessa mio marito mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Intanto vedemmo in lontananza una persona che veniva verso di noi: era una donna.
Sorridendo, disse: “Vi aspettavo. Ogni anno viene una nuova maestra, nessuna rimane qui più di un anno”.
La signora Maria, molto cordiale e affabile, ci invitò a entrare in casa e ci offrì il caffè. Ci disse che nell’ altra casa abitava una ragazza che non stava bene: aveva problemi mentali.
Il primo ottobre, alle otto e trenta ero già nella mia sede. In un piccolo ambiente adattato ad aula vi erano pochi banchi di legno, una lavagna e un traballante tavolino con una sedia.
I bambini, una decina, di varie età, arrivarono verso le nove, tutti con il grembiulino nero, il colletto e il fiocco bianchi. Li accolsi con un ampio sorriso.
Abbracciandoli uno ad uno, chiesi come si chiamassero. Mi guardarono a lungo, timorosi, rispondendo con un filo di voce. Non fu facile conquistare la loro fiducia!
Cercai subito di metterli a loro agio, presentandomi e parlando di me in maniera spontanea e naturale, facendo anche qualche battuta divertente, ironizzando sui miei difetti e sulle mie paure.
Dopo avere parlato a lungo, li invitai, se volevano, a presentarsi perché potessi anch’io conoscere un po’ qualcosa di loro. Piegarono tutti la testa, ma dopo qualche momento di assoluto silenzio si sentì una vocina: uno degli alunni più grandi, con la mano alzata, chiedeva di parlare.
“Sono Giuseppe, ma tutti mi chiamano Peppinuccio. A me la scuola non piace. Mi piace invece portare le pecore a pascolare e lavorare pezzi di legno con un coltellino: faccio tante cose, se vuoi domani le porto e te le faccio vedere”.
Dopo di lui, anche altri si fecero coraggio e mi raccontarono le loro storie.
Scoprii, tra le altre cose, che tre fratellini venivano da una lontana contrada e che facevano un’ora di cammino al giorno per raggiungere la scuola.
Quei bambini avevano tutti la stessa espressione: difficilmente sorridevano e il loro sguardo malinconico faceva pensare a una vita non priva di sacrifici, di privazioni e di rinunce.
Quell’anno l’Autunno ci regalò bellissime giornate di sole e gradevoli temperature.
Nei giorni nei quali il cielo era sereno e non c’era vento, ad una certa ora, mettevamo i banchi nel piccolo piazzale antistante la scuola per godere del confortevole tepore del sole.
Di fronte a noi: un costone ricco di una grande varietà di vegetazione.
Spesso m’incantavo a guardare, ammirata, la grande gamma di colori che andavano dal verde all’arancione, dal giallo al rosso, dal marrone chiaro al marrone scuro, in un’alternanza di gradazioni di tinte che avrebbero incantato anche la persona più sbadata e distratta. E’ rimasto indelebile nella mia mente il ricordo di quello stupendo scenario naturale!
Una mattina eravamo all’aperto e concentrati nelle nostre attività quando all’improvviso sentimmo un ronzio sulle nostre teste che aumentava ad ogni istante d’intensità fino a diventare fortissimo: una gigantesca nuvola di api volava sopra di noi. Maria e il marito, avendo sentito anche loro il ronzio, accorsero gridando: “la sciamatura… la sciamatura…”. Non conoscevo cosa fosse la sciamatura. Mi spaventai molto, a differenza dei bambini che rimasero tranquilli anche se interessati a quanto stava accadendo. Maria e Antonio, suonando un campanaccio, diressero la nuvola di api verso il ramo di un albero. Quella mattina furono i miei alunni a insegnarmi qualcosa, spiegandomi che la sciamatura era la partenza definitiva dall’alveare dell’ape regina seguita da una parte di api operaie e da qualche fuco.
All’Autunno mite seguì un Inverno oltremodo freddo, non privo di abbondanti nevicate. Capitava spesso che nell’arco di una mattinata con il sole, all’improvviso il cielo si coprisse di nuvoloni e iniziasse a nevicare. Era il mese di gennaio. Come ogni mattina, lasciai la collega Lina presso la scuola di Pietraferrata di Lauria, pochi chilometri prima di Bruscate. C’era il sole e faceva freddo. Verso le undici iniziò a nevicare. Dopo circa un’ora mandai a casa i bambini e mi affrettai a raggiungere l’auto che era già completamente coperta di neve. Arrivai abbastanza agevolmente a Pietraferrata, dove la collega mi aspettava in preda a una grande agitazione.
Riprendemmo il viaggio, ma dopo qualche chilometro la macchina si fermò e non ci fu verso di proseguire. Ci incamminammo a piedi verso Frusci con l’obiettivo di raggiungere il bar e telefonare a casa. Intorno a noi, un paesaggio da fiaba: la neve, che scendeva fitta e copiosa, aveva coperto ogni cosa, trasformando la valle in una grande distesa bianca nella quale si riuscivano a distinguere appena i rami degli alberi che, completamente coperti di neve, tendevano verso il cielo. Un silenzio surreale avvolgeva il paesaggio.
Man mano che avanzavamo incontravamo sempre maggiore difficoltà a camminare: sprofondavamo nella neve alta che rallentava la nostra andatura.
L’ultimo tratto fu oltremodo difficile: la neve ci sferzava il viso e il freddo intenso ci provocava un inizio di confusione mentale. Forse se Lina, più lucida di me, non mi avesse sorretto difficilmente sarei arrivata al bar.
Ricordo ancora il grande camino con il fuoco e il tepore del locale, le premure della signora che ci avvolse in calde coperte e ci diede un bicchierino di liquore.
Dopo questa triste esperienza, la neve mi trasmette sempre una considerevole dose di ansia e di agitazione.