La nuova riforma della giustizia che infiamma Israele e le conseguenze delle derive nazionaliste estremiste. Un nuovo caso di regressione costituzionale

Scritto da Benedetta Auricchio e Pierbiagio Panico, studenti di Giurisprudenza presso l’Università Suor Orsola Benincasa in Napoli.

Introduzione: 

EDITORIALE – In Israele si è verificata una circostanza davvero insolita. Il 20 marzo passato gli israeliani sono scesi in piazza, tra loro c’era anche il capo della polizia di Tel Aviv che manifestava contro Netanyahu ed è stata la protesta più nella storia di Israele.
All’inizio di marzo, trentasette piloti su quaranta di un’unità di élite dell’areonautica militare israeliana hanno scioperato, sono i piloti dello Squadrone 69 che volano sugli F15, ma non hanno voluto più farlo almeno fino quando il Governo non avrebbe ritirato la sua riforma giudiziaria che, come nella più classica ipotesi di democrazia destabilizzata, toglie potere ed indipendenza alle Corti di fatto sottoponendole ad un controllo politico, mettendo a rischio la democrazia stessa e dando un potere sostanzialmente illimitato a qualsiasi governo abbia una maggioranza minima di 61 parlamentari su 120. Con quel singolo parlamentare in più nella Knesset, un governo ed in particolare questo Governo (che ne ha 64) può ribaltare gli effetti di una sentenza e fare più o meno come gli pare. 

Piccola parentesi illustrativa: la Knesset (in ebraico “l’assemblea”) è il Parlamento monocamerale di Israele. È composto da 120 membri eletti ogni 4 anni tramite un sistema proporzionale e detiene il potere legislativo. Tra i suoi compiti principali rientrano quelli di emanare leggi, eleggere il Presidente ed il Primo Ministro (anche se quest’ultimo è formalmente nominato dal Presidente), dare la fiducia al governo e supervisionare il suo lavoro. La Knesset ha inoltre la facoltà di destituire il Presidente attraverso una procedura di messa in stato d’accusa, o il governo attraverso una mozione di sfiducia costruttiva (strumento usato da alcune costituzioni approvate nel secondo dopoguerra che consiste nell’impossibilità da parte del parlamento di votare la sfiducia al governo in carica se, contestualmente, non concede la fiducia ad un nuovo esecutivo. In questo modo un governo che abbia perso la maggioranza parlamentare può rimanere in carica nel caso in cui le forze politiche in parlamento non riescano ad accordarsi per formare un nuovo governo). Attualmente la maggioranza alla Knesset appartiene alla coalizione di destra con a capo il Likud il partito nazionalista liberale di Netanyahu il quale è anche alla guida del suo sesto governo. 

La Corte Suprema in Israele, invece, è al vertice dell’ordinamento giudiziario e rappresenta un vero e proprio contraltare al potere politico, essendo Israele uno Stato basato su una serie di leggi fondamentali ma privo di una costituzione redatta in un unico documento, e le cui decisioni sono vincolanti. 

Brevi cenni sul sistema costituzionale: 

Dopo la fondazione dello Stato nel 1948, la Dichiarazione di Indipendenza affermò che un’assemblea costituente avrebbe adottato una costituzione per istituire e disciplinare le autorità dello Stato. L’Assemblea costituente eletta, esercente le sue funzioni sia come corpo legislativo che come corpo costituente non riuscì però ad approvare una costituzione scritta e l’assemblea rinominatasi appunto Knesset giunse ad una soluzione di compromesso nota come Risoluzione Harari, la quale prevedeva che la costituzione sarebbe stata composta di capitoli, ciascuno comprendente un’unica legge fondamentale a se stante e lo Stato avrebbe adottato la propria costituzione passo dopo passo nel momento in cui le diverse leggi fondamentali fossero state approvate dalla Knesset. Israele iniziò quindi un processo di adozione della costituzione capitolo per capitolo, processo che ad oggi non si è ancora concluso con l’adozione di una singola costituzione unitaria e complessiva ma che ha portato alla promulgazione delle seguenti leggi fondamentali: 

Sino al 1992 tutte le leggi fondamentali approvate riguardano essenzialmente l’organizzazione dei poteri dello Stato. Nel 1992 la Knesset si divise sull’opportunità di approvare una legge in tema di diritti costituzionali. Il compromesso fu raggiunto dividendo il capitolo sui diritti costituzionali in una ulteriore serie di leggi fondamentali separate, per fare in modo che il Parlamento potesse trovare il consenso necessario per il riconoscimento di alcuni diritti largamente condivisi lasciando aperta la discussione su diritti più controversi quali la libertà di religione, di parola, di coscienza, ed il principio di uguaglianza. 

Cronache della manifestazione: 

Ma torniamo alla manifestazione, l’opposizione popolare senza precedenti è arrivata anche all’interno delle agenzie di intelligence, il Mossad e lo Shin Bet, le quali rispondono direttamente al Primo Ministro e cioè proprio a Netanyahu. I dipendenti dei servizi segreti esterni hanno chiesto al loro capo il permesso di partecipare alle proteste e David Barnea, il capo del Mossad glielo ha concesso. L’ha concesso a 6700 agenti su 7000, solo alle 300 spie più importanti del paese, alle più alte in grado, non è stato concesso di scendere in piazza. La cosa è estremamente rilevante in quanto ovviamente la prassi è tutt’altra e le spie con la politica non devono avere nulla a che fare anche perché ne va della sicurezza nazionale. 

Ma questa volta è diverso. Questa volta non è stato possibile contenere lo sdegno che si è esteso in pochissimo tempo anche alla polizia, all’aeronautica, all’esercito fin quando la questione è diventata tale che l’ha posta lo stesso Ministro della Difesa Yoav Gallant, il quale ha dichiarato ci fosse un serio ed urgente pericolo per la sicurezza nazionale propio perché l’universo militare rischiava di disgregarsi per ragioni politiche e che di fronte all’enormità ed alla gravità della cosa il Governo non poteva esimersi dal porsi delle domande e rivedere la riforma della giustizia pur di tenere insieme almeno quel pezzo di popolazione che serve a proteggere tutto il resto dei cittadini. 

Il risultato è stato che invece di dare ascolto alle proteste ed alle parole di Gallant, la prima reazione del Primo Ministro Netanyahu è stata licenziare il Ministro della Difesa. La conseguenza del licenziamento è stata portare al culmine le 11 settimane di protesta.
I dipendenti del Ben Gurion, l’aeroporto di Israele, hanno fermato i decolli ed hanno bloccato il più importante aeroporto israeliano e persino i leader sindacali che sono anche esponenti del Likud hanno sposato lo sciopero. Successivamente hanno cominciato a scioperare anche gli ospedali, gli asili hanno annunciato la chiusura e quindi i genitori non devono portarci i bambini prima di andare a lavoro e persino l’ambasciata israeliana a Washington ha chiuso perché sciopera contro il governo. Hanno chiuso i centri commerciali perché i lavoratori partecipano alle proteste ed i datori di lavoro e gli imprenditori stanno dalla loro parte ed hanno affermato che gli stipendi non ne risentiranno minimamente. 

Durante queste proteste in Israele sono scese quasi 700.000 persone per le strade. Questo sarebbe un numero enorme in Italia, ma risulta ancora più impressionante per un paese che conta solo 9 milioni di abitanti. Anche gli agenti dello Shin Bet, il servizio segreto interno, hanno chiesto ai superiori di poter partecipare alla protesta, uno di loro ha argomentato dicendo che queste sono manifestazioni per la democrazia ed in quanto tali sono assolutamente in linea con quello che è il compito istituzionale delle spie, non si stratta di manifestazioni per un cambio di regime nel paese, per far cadere un governo e neppure quelle del movimento Palestinian Lives Matter ispirato a quello più famoso americano. Per il momento il capo dello Shin Bet, Ronen Bar, non ha dato il permesso a nessuno dei suoi, ma ha dovuto far fronte ad un problema maggiore trovandosi ad avere a che fare con un numero sempre maggiore di riservisti che hanno dichiarato che non parteciperanno a nessuna futura manifestazione. 

Ed è questa la questione essenziale, quella che preoccupava il Ministro della difesa silurato in un primo momento da Netanyahu : la questione dei 500.000 riservisti israeliani che in teoria sono disponibili per le forze di sicurezza ma che in pratica si sono sottratte per la protesta. Come già detto è una situazione senza precedenti per Israele ed è una situazione di cui i suoi nemici potrebbero approfittare, rafforzando ulteriormente le preoccupazioni del Ministero della Difesa. 

Alcuni membri dell’unità delle forze speciali ed anche alcuni del servizio di intelligence informatica, la cosiddetta Unità 8200, hanno a loro volta detto che sciopereranno e che non accetteranno di essere schierati se saranno chiamati da questo governo. 

I manifestanti si sono poi riuniti sotto il parlamento ed anche sotto la casa privata di Netanyahu.
Il ministro della Giustizia Yariv Levin, padre della riforma contestata, ha minacciato le sue dimissioni irrevocabili se il Primo ministro avesse sospeso la sua legge, ma si è chiaramente capito che il governo stava cedendo quando a distanza di poche ore il ministro si è rimangiato le sue minacce dicendo che avrebbe rispettato qualsiasi decisione presa in merito alla riforma della giustizia.
È poi intervenuto pure l’avvocato di Netanyahu, che l’ha difeso nei processi dove è accusato di corruzione, dichiarando che avrebbe rinunciato alla procura e a difenderlo se non avesse ritirato la riforma. 

Ed ecco che alla fine questa protesta unica nella storia di Israele ha quasi vinto, quasi perché Netanyahu il 27 marzo ha congelato la riforma. 

l panorama politico israeliano attuale: 

Adesso il problema è rappresentato dall’estremista Ministro della Sicurezza Ben Gvir, astro nascente dell’estrema destra del paese ed alleato del Likud e di Netanyahu, noto per aver collezionato 46 incriminazioni per incitamento all’odio e per aver teorizzato l’espulsione di tutti i cittadini arabi da Israele. Ben Gvir ha portato l’estremismo ad un livello tutto nuovo, al punto da essere esonerato dal servizio militare in un paese come Israele che prevede la leva obbligatoria, proprio a causa delle sue opinioni di estrema destra. 

Il partito di estrema destra di cui fa parte, Otzmà Yehudit (Forza Ebraica), nel 2022 è affluito insieme ad altri due gruppi di estrema destra, nel Partito Sionista Religioso, formazione ideata per superare la soglia di sbarramento del 3,25% ma che è diventata la terza forza del Paese con 7 seggi. 

Ben Gvir vuole disperatamente la riforma perché vuole ribaltare in particolar modo una sentenza, quella sentenza che decreta che i territori palestinesi occupati dai coloni israeliani sono illegali, quei coloni sono i suoi elettori e lui minaccia di far cadere il governo se la riforma viene ritirata.
Peraltro lo stesso Netanyahu è sotto processo per tre diversi capi di imputazione, ha infatti processi pendenti per corruzione, frode ed abuso d’ufficio. Non è dunque un caso che uno degli obiettivi principali della coalizione formatasi con le ultime elezioni sia quello di modificare le prerogative della Corte Suprema, in particolare attraverso l’approvazione della cosiddetta “override clause”. Si tratterebbe, qualora fosse approvata, di una riconfigurazione costituzionale che cambierebbe l’equilibrio di potere tra il potere giudiziario e quello legislativo. La nuova norma consentirebbe ad una maggioranza di 61 membri della Knesset di scavalcare il potere giudiziario ed approvare leggi in contrasto con le Leggi fondamentali del paese, limitando in modo critico le prerogative di controllo e garanzia della Corte Suprema. 

Una specie di versione israeliana riveduta e corretta delle leggi ad personam di berlusconiana memoria. 

Il tema sono gli scontri violenti ed il paradosso è che quelli che dovrebbero evitarli, come il Capo della Polizia di Tel Aviv, fino ad un minuto prima facevano parte di un pezzo della protesta che ora si contrappone ad un altro, quello di estrema destra. I gruppi estremisti hanno detto che la violenza è esattamente il metodo da usare in questo contesto in piazza a Gerusalemme.
Questo pensiero si fortifica sempre di più attraverso gli slogan e le parole di quei personaggi politici, in Israele come in altre parti del mondo, dove la deriva nazionalista di estrema destra dilaga come un fiume in piena, che se prima avevano una posizione marginale a livello politico ed inesistente a livello istituzionale oggi sono al centro di qualsiasi dinamica governativa.
Nel 1995 Ben Gvir appariva in tv brandendo lo stemma strappato dalla Cadillac dell’allora Premier Rabin. “Come siamo riusciti a raggiungere questo simbolo, possiamo raggiungere anche lui”1 urlava. Poche settimane dopo il leader laburista veniva ucciso da un colono estremista contrario al processo di pace di Oslo (quegli accordi che hanno portato all’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese con il compito di autogovernare, in modo limitato, parte della Cisgiordania e della Striscia di Gaza). 

Ma non è “solo” questo il reale problema di questa riforma. Dopo anni di instabilità politica e di coalizioni claudicanti, a noi italiani estremamente familiari, Israele ha trovato il suo nuovo baricentro in un insolitamente solida maggioranza di destra estremista.
Come scrive Enrico Campelli2, con ben 31 membri (di cui solo 5 donne), l’attuale governo israeliano è uno dei più numerosi di sempre e gode di una solida maggioranza di 64 parlamentari su 120. Seguendo la traiettoria politica degli ultimi decenni il nuovo Governo è il più a destra della storia del Paese, nel quale Netanyahu si ritrova ad avere un Gabinetto relativamente omogeneo dal punto di vista ideologico e nel quale è stato dato un potere senza precedenti a figure estremiste che fino a poco tempo fa erano percepite come destinate a rimanere ai margini della politica e che ora sono, secondo molti costituzionalisti, “l’ultima stampella possibile del leader”3. Oltre, infatti, al Likud di Netanyahu ed ai suoi alleati ultraortodossi Shas e UTJ, la coalizione di maggioranza comprende per la prima volta le formazioni di destra radicale Otzmà Yehudit, Tkumà e Noam (che hanno partecipato alle elezioni insieme nella coalizione Hatzionut Hadatit). Per la prima volta, dunque, ed è questo un dato tanto paradossale quanto significativo, sarà Netanyahu l’elemento più moderato della propria coalizione. 

Il nuovo Governo è entrato in carica dopo un anno caratterizzato dai peggiori livelli di violenza tra israeliani e palestinesi in oltre dieci anni.
E se da un lato, di fronte alle critiche e ai timori dei suoi avversari il Primo Ministro ha dichiarato l’intenzione di difendere i valori democratici, che i cittadini arabi ed omosessuali non hanno nulla da temere e che le minoranze non hanno nessun motivo di preoccupazione, affermando che il tempo gli avrebbe dato ragione, resta incontrovertibile il dato di fatto che tra le linee guida pubblicate non è esplicitata alcuna volontà di preservare i valori e le istituzioni democratiche e che con l’appoggio dei suoi nuovi alleati il Likud persegue apertamente una riforma giudiziaria che intende stravolgere gli equilibri dello stato di diritto e soprattutto la divisione dei poteri esistenti con i checks and balances tra la Knesset e la Corte Suprema. 

La deriva estremista è sempre e comunque più evidente e vede proposte anch’esse incontrovertibili sulla direzione che questo Governo ha deciso di intraprendere: tra gli altri propositi vi è un accordo con la formazione di destra radicale Otzmà Yehudit per emendare il secondo comma dell’art 7 della Basic Law sulla Knesset la quale impedisce la candidatura al Parlamento israeliano per chi inciti al razzismo. Inoltre, sebbene si tratti ancora di una proposta, il fronte ultraortodosso ha addirittura ipotizzato di modificare la Anti- discrimination Law, la legge che proibisce condotte discriminatorie nella vendita di prodotti e servizi e l’ingresso in posti pubblici e di intrattenimento, si vedano a tal proposito le proposte sulla possibilità per il personale medico di rifiutare trattamenti sanitari a persone della comunità LGBTQ, qualora possa intervenire un altro medico o relative alla possibilità che strutture alberghiere rifiutino i loro servizi a coppie dello stesso sesso. 

Tutto ciò congiuntamente alla riforma incriminata manifesta indubbiamente la drammatica inversione rispetto alle aspirazioni costituzionali dello Stato di Israele il quale si professa “ebraico e democratico” come sancito dalle stesse Leggi Fondamentali del paese.
È ovvio che la preoccupazione maggiore per gli israeliani è rappresentata dalla Riforma della Giustizia, la quale vede nell’immediato la possibilità di concretizzarsi e distruggere tutti gli importanti progressi verso il costituzionalismo compiuti fino ad ora. 

Ma come emerge dagli scritti di Campelli, questo tipo di dibattito non è nuovo nell’ordinamento e vede antagonista della fase di rivoluzione costituzionale progredita fino agli anni ’90, la fase di arresto detta di “controrivoluzione”4, con chi accusa la Corte colpevole di “legislating from the bench5” o comunque di avere in generale superato le prerogative costituzionalmente assegnatele rendendosi responsabile di un eccessivo attivismo legislativo producendo effetti distorsivi della separazione dei poteri. 

Eppure prendendo ad esempio, tra le tante, l’esperienza italiana appare chiaro come questo fenomeno di iperattività della Corte sia in parte reale e sempre più frequente in quei paesi nei quali le leggi non sono al passo con le esigenze di tutela dei nuovi diritti che si vengono via via affermando col tempo. Come se il potere legislativo non riuscisse a tenere il passo della necessità di tutela delle libertà, cui unico rifugio per trovare protezione resta il potere giudiziario (si pensi al ruolo della Corte Costituzionale o più in generale dei tribunali nella controversia relativa la legge su fine vita ed eutanasia legale, necessità reale contro vuoto normativo). 

In una prospettiva comparata simili interventi sul potere giudiziario, in particolare se analizziamo questo percorso di costituzionalismo step by step intrapreso dagli israeliani, sono direttamente equiparabili alle esperienze polacca e ungherese le quali hanno avuto similissime derive populiste ed una precisa traiettoria di limitazione dei poteri delle rispettive Corti da parte degli esecutivi. In Europa è purtroppo già da tempo che assistiamo ad un progressivo deterioramento costituzionale richiamando al contrario quel concetto tanto caro al nostro professore delle democrazie stabilizzate. 

Il contenuto della Riforma: 

Tutti questi timori fino a qui esplicitati hanno preso una forma concreta quando l’11 gennaio 2023 il Ministro della Giustizia israeliano Yariv Levin, ha presentato il disegno di legge che delineava i primi due importanti passi della revisione costituzionale programmata dal nuovo esecutivo. Ad una superficiale e poco attenta analisi del testo traspare chiaramente la precisa intenzione di politicizzare completamente il sistema giudiziario, e persino il Times of Israel con una delle sue firme più autorevoli ravvisava nel governo di Netanyahu la volontà di posizionarsi “all’epicentro della nascita di un costituzionalismo populista in Israele”6. 

Il testo include importanti riforme a due Basic Law di Israele, quelle leggi emanate dalla Knesset nel suo ruolo originario costituente, sulla base della Harari Resolution, il compromesso di cui parlavamo all’inizio della tesina, posto in essere per permettere alle Leggi Fondamentali di comporre in un successivo momento i capitoli della futura costituzione israeliana. A questo proposito è importante sottolineare che da metà degli anni ’90 l’orientamento cristallizzatosi alla Corte Suprema prevede che tali Leggi Fondamentali siano considerate gerarchicamente sovraordinate rispetto alla legislazione ordinaria, permettendo alla Corte stessa di esercitare un controllo giurisdizionale “costituzionale”. 

La riforma prevede una profonda revisione della Legge Fondamentale sul potere giudiziario, i cui punti principali riguardano: 

  • –  In primo luogo le modifiche alla composizione della Commissione per le nomine giudiziarie – Judicial Appointment Commitee; 
  • –  In secondo luogo una riforma del processo di revisione giudiziaria per le leggi ordinarie che contraddicono le Leggi Fondamentali e che, secondo la proposta, potranno essere annullate solo se ritenute incostituzionali almeno dall’80% di tutti i giudici della Corte Suprema (rendendo virtualmente impossibile il controllo di legittimità costituzionale); 
  • –  Una “override clause”, cioè una clausola di superamento, la quale comporta che il Parlamento potrà legiferare nuovamente, a maggioranza dei suoi membri, una legge dichiarata incostituzionale, a condizione che la legge indichi esplicitamente che è valida “nonostante” la sentenza della Corte. Tale legge sarebbe immune dal controllo giudiziario per quattro anni e, qualora venisse nuovamente prolungata da un Parlamento successivo, sarebbe da intendersi valida a tempo indeterminato; 
  • –  Il divieto di controllo giurisdizionale sulle Leggi Fondamentali; 
  • –  L’abolizione del criterio di ragionevolezza da parte della Corte. Ed ulteriori modifiche eventuali sono rappresentate dalla modifica dell’età pensionabile per i giudici. 

È rispetto al primo punto riguardante il Judicial Appointment Commitee, cioè l’organismo deputato all’individuazione dei giudici della Corte, che emergono le maggiori criticità. Attualmente la composizione del Commitee è decisa dalle Leggi Fondamentali ed include due ministri del Governo, due membri del Parlamento, due rappresentanti dell’Ordine degli avvocati e tre giudici della Corte Suprema. La proposta di Levin intende ristrutturare il Comitato per dare ai politici il controllo sulla composizione della Corte.

Un altro punto pericoloso della Riforma è proprio quello relativo la override clause, la clausola di superamento, ritenuto da molti, tra cui Campelli, il principale campanello di allarme di un generale fenomeno di deterioramento costituzionale israeliano. La legge proposta prevede l’istituzione di una norma con la quale la Knesset può rifiutare l’interpretazione data dalla Corte Suprema alle Leggi Fondamentali e non essere vincolata da una decisone della Corte Suprema che annulla una legge ordinaria. Il pericolo è che tale strumento non funga da vincolo per il Parlamento al rispetto dei valori costituzionali, ma che consenta un discrezionale se non addirittura arbitrario bilanciamento dell’equilibrio tra valori ed interessi in gioco. Tale clausola di superamento rimarrebbe valida per un’intera legislatura (4 anni) ed indefinitamente se fosse riapprovata anche dal successivo Parlamento. 

Risvolti diplomatici, Israele ed i suoi “alleati”: 

Ed il punto non è solo come tutto questo si possa riflettere all’interno dello stesso Stato, come dimostra ampiamente la protesta ed i numeri di quest’ultima, ma come si rifletta all’esterno soprattutto rispetto alle relazioni diplomatiche e politiche che intercorrono con gli altri Stati.
La deriva nazionalista ha ormai delle caratteristiche ben precise, conosciute e riconoscibili. Uno dei fattori che si è fatto strada in questi ultimi anni è sicuramente la componente complottista. 

Ed ecco che Yair Netanyahu, figlio del Primo Ministro, scrive su Twitter che le manifestazioni in Israele sono fomentate dagli americani e che dietro i manifestanti c’è il Dipartimento di Stato. È una teoria del complotto che siamo abituati a sentire più spesso in altri contesti ed in paesi che sono apertamente e storicamente ostili agli Stati Uniti, come per esempio gli acerrimi nemici di Israele, gli iraniani, che hanno usato le stesse parole di Yair più volte negli ultimi mesi per far credere che le manifestazioni scoppiate dopo la morte di Mahsa Amini non fossero spontanee. 

Yair Netanyahu ha 31 anni, è un podcaster, un membro del Likud, il partito del padre, ed il suo consigliere. Prima del suo tweet è uscita un’altra notizia che andava nella stessa direzione ed il giornale israeliano Times of Israel ha scritto che mentre Netanyahu era in visita qui a Roma da Giorgia Meloni, un alto funzionario che lo accompagnava ha affermato che la protesta che stava infiammando le strade di Israele fosse stata finanziata con milioni di dollari ed organizzata ad un livello molto alto, spacciando insomma la nuova teoria del complotto. 

Il New York Times nel frattempo apriva con questa notizia: “Gli Stati Uniti ed Israele hanno reso pubblico il loro litigio”9, un litigio raro e clamoroso, che covava da tempo ma che è esploso proprio in questi ultimi tempi.
Prima di spiegare il perché del litigio, c’è bisogno di aprire una piccola parentesi per comprendere non solo il contesto, ma anche le simpatie che ormai collegano tutti i partiti estremisti mondiali in un sorta di solidarietà nazional-populista. 

Yair Netanyahu in uno degli ultimi episodi del suo podcast ha intervistato Edoardo Bolsonaro, figlio dell’ex Presidente brasiliano (quello noto per le sue dichiarazioni “Meglio un figlio morto che un figlio gay” e “Ho avuto quattro figli maschi, poi devo aver avuto un cedimento ed è uscita una femmina”), in questo episodio Yair ha detto che quello che accomuna Israele, Stati Uniti ed il Brasile di Bolsonaro non è tanto il fatto che si parli di democrazie liberali quanto il fatto che siano tutti dei paesi con radici giudaico-cristiane, insomma alla base delle supposta sintonia ci sarebbe la Bibbia più che i valori democratici “ we have a lot in common, not only common interests but common values as well, beside being democratic countries and free countries”.10 Questo è un passaggio utile per capire dove si crea la frattura fondamentale: Netanyahu senior è un laico e per lungo tempo ha rappresentato la versione liberale e laica di Israele, un paese dove i laici sono la stragrande maggioranza e i religiosi e gli ultraortodossi come i suoi attuali compagni di governo (quelli che Ginsburg ha definito la stampella di Netanyahu) sono solo l’8%, per capirci meno della metà della popolazione araba11. Eppure ad un certo punto qualcosa è cambiato, per capire quando dobbiamo nuovamente fare riferimento al tweet di Yair che abbiamo citato prima, dove lui dopo aver accusato il dipartimento di Stato americano di celarsi dietro le manifestazioni ha proseguito scrivendo che evidentemente l’obiettivo degli americani è far cadere Netanyahu per poi fare un accordo con gli iraniani. 

La frattura fondamentale è stata quella, l’accordo siglato nel 2015 da Barack Obama quando Joe Biden era il suo vicepresidente con la Repubblica Islamica dell’Iran, quella frattura che si è allargata progressivamente perché ad Obama è succeduto Trump, il quale ha accontentato Netanyahu uscendo unilateralmente dall’accordo con l’Iran, ma Trump ha anche inaugurato una nuova idea della politica di destra nel mondo, è stato il primo protagonista (o forse antagonista se ci si affida alla prospettiva) di una rivoluzione culturale basata su valori molto diversi da quelli su cui erano sintonizzati prima Stati Uniti ed Israele, valori di cui quell’intervista tra il figlio di Netanyahu ed il figlio di Bolsonaro è un buon esempio. Aspetto ulteriormente chiarificatore degli attuali rapporti è che Biden e Netanyahu si conoscono da oltre quarant’anni, ma il Premier israeliano alle ultime presidenziali americane non ha nascosto il suo sostegno per The Donald, dopotutto Trump durante la sua presidenza gli aveva concesso qualsiasi cosa chiedesse.
Oggi le cose sono ulteriormente peggiorate, Netanyahu dopo essersi messo nella scia trumpiana, pur di continuare ad essere il capo è finito al governo con chi si dichiara apertamente fascista, ci è riuscito con un trucco nei giochi parlamentari dal suo punto di vista geniale e formalmente assolutamente legittimo, ma che ha comportato che una minoranza di estremisti contasse di fatto in Parlamento e poi nel Governo molto più di quanto contino realmente nel paese, come hanno dimostrato le recenti manifestazioni. Oggi c’è ovviamente una grande fetta di popolazione israeliana che ha paura che coloro che si autodefiniscono fascisti da minoranza impongano la loro volontà sulla maggioranza. La Riforma della Corte Suprema è grave di per se, ma la cosa considerata più spaventosa è che la Corte perda i propri poteri che limitano quelli del Governo proprio nel momento in cui c’è il governo più estremista nella storia del paese.
Nella pratica, in termini poco accademici ma molto reali, un pilota di aerei israeliano non si fida a servire se la decisone di come e dove sganciare una bomba è influenzata da un ministro che quel pilota considera un folle. È per questo che i militari hanno manifestato andando sotto casa del Ministro della Difesa e tempestandolo di chiamate, mail, messaggi e tweet in cui minacciavamo quasi la diserzione, quindi il Ministro della Difesa ha chiesto a Netanyahu di fermarsi e questi per tutta riposta l’ha licenziato e così è si è maggiormente aggravata una situazione che già correva sul filo del rasoio.
Una situazione così grave e senza precedenti che persino il Presidente Biden si è esposto in una maniera particolarmente insolita quando alla domanda se inviterà Netanyahu a Washington ha risposto di no, che per il momento non ha intenzione di farlo. Ha poi riposto alle accuse fatte e dichiara che nessuno sta interferendo negli affari israeliani, che in Israele conoscono bene la sua posizione, conoscono la posizione dell’America e conoscono la posizione degli ebrei americani. Dopo queste dichiarazioni poco amichevoli il Primo Ministro israeliano ha risposto a sua volta in modo poco amichevole dicendo che Israele è un paese sovrano e prende le sue decisioni per suo conto e non accetta pressioni da nessuno straniero, neanche dai migliori amici. Settimane di lavoro segreto delle diplomazie sono state buttate alle ortiche perché sono sfociate in uno scontro esplicito e molto raro, Biden ha anche detto riferendosi al governo di Israele “Non può andare avanti in questo modo, glielo ho detto molto chiaramente”12, e questi sono toni che ovviamente di solito non si usano con gli alleati. Ed ecco che risulta in tutta la sua chiarezza l’effetto esterno di cui prima, quello che vede le democrazie stabilizzate guardare a quelle che mettono in pericolo lo Stato di diritto con sempre maggior sospetto e sempre minore diplomazia.
Alcune fonti hanno detto alla testata Axios, che è generalmente ben informata su questo genere di vicende, che il messaggio che Biden ha mandato personalmente e privatamente a Netanyahu è molto più duro di questo. Ed Aaron David Miller, uno dei più grandi esperti delle relazioni tra Stati Uniti e Israele che è stato a lungo negoziatore americano in Medio Oriente, ha detto riferendosi alla crisi in atto che questa è diversa da qualsiasi altra crisi precedente nella storia dei due paesi, che è una crisi straordinaria che neanche lui aveva mai visto. Insomma parole poco rassicuranti se si pensa alla fonte dalla quale provengono.
Ora bisogna pensare che la relazione tra Netanyahu e Biden ha una storia lunghissima, i due si conoscono da quando il Presidente americano era un senatore ed il Premier israeliano lavorava per l’ambasciata del suo paese a Washington quaranta anni fa. Quando Netanyahu per la prima volta ha perso le elezioni più di vent’anni fa, Biden gli scrisse una lettera per dirgli che era stato molto coraggioso a partecipare al vertice di pace con i palestinesi nel 2000, che aveva fatto bene anche se forse in quel caso gli era costato la rielezione. All’epoca Netanyahu aveva detto di Biden che era stato l’unico politico americano a scrivergli dopo che aveva perso. Poi negli anni della presidenza Obama, il Presidente è stato ad un passo dal litigare con il Premier israeliano varie volte, una volta aveva persino ordinato al suo vice Biden di non andare da Netanyahu e di disertare un incontro già annunciato, un gesto che sarebbe sicuramente diventato un caso, ma Biden ci andò comunque e spiegò ad Obama perché era importante tenere private certe divergenze. Biden era l’anello di congiunzione tra i due e quello che aveva evitato per anni che le discussioni interne diventassero un litigio pubblico. Eppure oggi che è lui il Presidente degli Stati Uniti ha ritenuto la situazione grave al punto da non voler lasciare che passasse in sordina, e da rimarcarla poco diplomaticamente in pubblico ed ancora meno diplomaticamente in privato