Di Charles Laval
Diego guardava il tram 28 salire faticosamente per Calçada do Combro, il caratteristico giallo che si stagliava contro il cielo plumbeo di Lisbona. Era la terza volta in cinque anni che si ritrovava lì, seduto su quella stessa panchina del Miradouro de Santa Catarina, a fissare le navi da crociera ormeggiate nel Tago. “Sei tornato,” gli disse Adele, la proprietaria del chiosco dei caffè, senza nemmeno fingere sorpresa. Lo conosceva ormai. Sapeva che sarebbe tornato, proprio come le rondini tornano sempre agli stessi nidi. “Come se non fossi mai partito,” rispose lui, accettando il bicchierino di ginjinha che lei gli porgeva senza che l’avesse ordinato. Il liquore alle ciliegie, dolce e forte, gli ricordava perché continuava a tornare. Tre volte, tre fughe, tre ricominciamenti. La prima volta era scappato da un matrimonio fallito a Roma, convinto che cambiare città significasse cambiare vita. La seconda volta era fuggito da un lavoro tossico a Milano, dove aveva ripetuto gli stessi errori del passato: troppo coinvolgimento, troppa dedizione, troppa ingenuità. E ora, la terza volta, era di nuovo lì, dopo aver mandato all’aria un’altra relazione a Torino. “Sai qual è il problema delle fughe?” gli disse Adele, pulendo il bancone con movimenti circolari, sempre uguali. “Non funzionano mai, perché ovunque vai, ti porti dietro te stesso.” Diego rise, una risata amara come il caffè portoghese. “Parli come mia nonna.” “Le nonne hanno sempre ragione,” rispose lei, versandogli altro liquore. “E sai perché? Perché hanno visto le persone ripetere gli stessi errori per generazioni. È come guardare lo stesso spettacolo teatrale, cambiando solo gli attori.” Il vento dell’Atlantico portava l’odore di sardine grigliate dai ristoranti di Bairro Alto. Diego chiuse gli occhi, lasciando che i suoni della città lo avvolgessero: il cigolio dei tram, le chitarre dei musicisti di strada, le conversazioni in portoghese che non capiva ma che suonavano come una ninna nanna familiare. “Forse,” disse dopo un lungo silenzio, “non sono qui per fuggire questa volta.” Adele inarcò un sopracciglio. “No?” “No. Forse sono qui per capire perché continuo a tornare. Per guardare in faccia questo… questo destino, come lo chiamava mia madre.” Un gruppo di turisti passò ridendo, i loro selfie stick puntati verso il panorama. Diego li osservò, ricordando quando anche lui era solo un turista, la prima volta, con una guida Lonely Planet in tasca e l’illusione di poter ricominciare da zero. “Il destino,” disse Adele, “non è quello che ti succede. È come reagisci a quello che ti succede. E tu, amico mio, reagisci sempre allo stesso modo.” Diego annuì, estraendo dalla tasca un pacchetto di post-it gialli. Era un’abitudine che aveva preso anni fa: scrivere pensieri, appunti, promemoria. Li attaccava ovunque nel suo appartamento a Roma, poi a Milano, poi a Torino. Ora ne aveva uno anche qui, un monolocale nel Bairro Alto con vista sui tetti rossi e le antenne televisive. Scrisse qualcosa sul post-it e lo attaccò al bancone del chiosco: “La definizione di follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi.” Adele lesse e sorrise. “Einstein?” “No, Adele. Questa volta sono io. Ed è l’ultima volta che fuggo.” Il tram 28 passò di nuovo, il suo campanello risuonò nella piazza come un promemoria. Diego guardò l’orologio: le 18:43, l’ora in cui il sole iniziava a giocare con le tegole dei tetti, trasformando Lisbona in una città dorata. “Sai cosa penso?” disse Adele, iniziando a chiudere il chiosco. “Penso che forse non è il destino che ti porta qui. Forse è Lisbona che ti chiama. Questa città ha questo effetto sulle persone: le attira quando hanno bisogno di trovare qualcosa, anche se non sanno cosa stanno cercando.” Diego si alzò, lasciando qualche moneta sul bancone. “E secondo te, cosa sto cercando?” “La stessa cosa che cerchiamo tutti: il coraggio di affrontare chi siamo veramente, senza scappare.” Il post-it giallo ondeggiò nella brezza serale, come una piccola bandiera di resa. O forse, questa volta, di vittoria.
Passarono tre settimane. Diego aveva trovato un lavoro come traduttore freelance per un’agenzia locale. Non era quello che aveva fatto negli ultimi dieci anni della sua vita – era stato un project manager, poi un consulente, poi aveva tentato di aprire un ristorante – ma forse era proprio questo il punto: fare qualcosa di completamente diverso. Una mattina, mentre traduceva un articolo sulla storia del fado, ricevette una chiamata dall’Italia. Era Sofia, la sua ex di Torino. “Ho trovato i tuoi post-it,” disse lei, senza preamboli. “Erano nascosti ovunque. Dietro i libri, sotto il materasso, persino nella scatola dei fusibili. È come se avessi disseminato briciole di pane per ritrovare la strada di casa.” Diego rimase in silenzio, guardando fuori dalla finestra. Un gabbiano si era posato sul cornicione, immobile come una statua. “Lo sai che c’è scritto la stessa cosa su tutti?” continuò Sofia. “‘Non fare come sempre, non fare come sempre, non fare come sempre.’ Come una litania, una preghiera.” “E invece l’ho fatto di nuovo,” disse lui, più a se stesso che a lei. “Sì, l’hai fatto di nuovo. Sei scappato. Come sempre.” Il gabbiano sul cornicione si mosse improvvisamente, ma invece di volare via, si girò verso la finestra e iniziò a fissare Diego. Aveva qualcosa di familiare in quello sguardo, come se anche lui fosse bloccato in un loop di comportamenti predeterminati. “Sofia,” disse Diego, “ti devo raccontare una cosa sulla ripetizione.” “Diego, non…” “No, ascolta. Ho capito una cosa qui a Lisbona. La ripetizione non è il problema. Il problema è che ogni volta che mi ripeto, ogni volta che scappo, ogni volta che mando tutto all’aria, lo faccio pensando di essere diverso questa volta. Ma non è vero. Non sono mai diverso. Sono sempre io, con le mie paure, le mie ossessioni, i miei pattern.” Si alzò dalla scrivania e si avvicinò alla finestra. Il gabbiano non si mosse. “E sai qual è la cosa più assurda? Che forse va bene così. Forse non devo cambiare chi sono. Forse devo solo… accettarlo.” Dall’altra parte della linea, Sofia sospirò. “E questo cosa significa?” “Significa che non tornerò a Torino. Non questa volta. Non perché sto scappando, ma perché per la prima volta sto andando da qualche parte.” Il silenzio si allungò tra loro come un filo teso. Poi Sofia disse qualcosa che lo sorprese. “Lo so. L’ho sempre saputo. Era scritto anche questo sui tuoi post-it, sai? Non quelli visibili, ma quelli che non hai mai avuto il coraggio di scrivere.” Diego chiuse gli occhi. Il sole di mezzogiorno filtrava attraverso le persiane, disegnando strisce di luce sul pavimento come le righe di un quaderno. “C’è un posto qui,” disse infine, “un chiosco gestito da una donna che si chiama Adele. Serve il miglior liquore alle ciliegie che tu abbia mai assaggiato. Se un giorno passi da Lisbona…” “Non lo farò,” lo interruppe Sofia, ma c’era un sorriso nella sua voce. “Alcuni pattern vanno rotti, no?” Quando riattaccò, Diego prese un post-it dal suo blocchetto. Questa volta scrisse: “Alcune ripetizioni sono come onde: non puoi fermarle, puoi solo imparare a surfarci sopra.” Lo attaccò alla finestra, proprio dove il gabbiano lo guardava ancora. L’uccello inclinò la testa, come per leggere, poi finalmente spiegò le ali e volò via. Era ora di andare al chiosco di Adele. Aveva una storia da raccontarle.
Adele non c’era. Al suo posto, dietro il bancone del chiosco, c’era un ragazzo sui vent’anni che assomigliava in modo impressionante a com’era lui vent’anni prima. Gli stessi occhi inquieti, lo stesso modo di tamburellare le dita sul bancone come se stesse sempre aspettando qualcosa. “Adele non c’è oggi,” disse il ragazzo, anticipando la sua domanda. “Sono suo nipote, Miguel.” Diego si sedette sullo sgabello abituale, quello da cui si vedeva meglio il tramonto sul Tago. “Non sapevo avesse un nipote.” “Tutti hanno un nipote,” rispose Miguel, versandogli la ginjinha senza che gliela chiedesse. “Come tutti hanno un passato che si ripete.” Diego lo guardò sorpreso. “Parli come tua nonna.” “E tu bevi come mio padre beveva,” disse Miguel, con un sorriso che aveva qualcosa di amaro. “Sempre alla stessa ora, sempre lo stesso posto, sempre lo stesso liquore. Fino a quando non è sparito.” Il silenzio che seguì era denso come la nebbia che talvolta saliva dal fiume. Diego guardò il suo bicchierino, vedendo per la prima volta il riflesso di qualcosa che non aveva mai notato prima. “Sai dov’è Adele?” chiese, cercando di cambiare discorso. “All’ospedale. Papà è tornato. Dopo quindici anni, è tornato. Ha un cancro ai polmoni, dice che vuole fare pace. La storia si ripete, no? Come diceva sempre la nonna: ‘Non sai che quello che ti tocca una volta si ripete?'” Diego estrasse il suo blocchetto di post-it. Ne staccò uno e scrisse: “La ripetizione non è una condanna, è un’opportunità di fare diversamente.” Lo attaccò sul bancone, accanto a quello vecchio. Miguel lo lesse e rise. “Sei tu quello dei post-it? La nonna parla sempre di te. Dice che sei come una rondine che non ha ancora capito che l’inverno è finito.” “E tu? Tu cosa sei?” “Io?” Miguel si versò anche lui un bicchierino di ginjinha. “Io sono quello che resta qui. Quello che non scappa. Quello che guarda suo padre morire nello stesso ospedale dove è nato.” Un tram passò, il suo cigolio familiare ora sembrava il lamento di un animale ferito. “Sai cosa penso?” disse Diego dopo un lungo silenzio. “Penso che restiamo tutti prigionieri delle nostre storie finché non capiamo che possiamo essere sia il protagonista che lo scrittore.” Miguel annuì lentamente. “La nonna dice sempre che hai la mania di filosofeggiare.” “La nonna ha ragione. Come sempre.” “Come sta?” “Chi?” “Tuo padre. Come sta?” Miguel si strinse nelle spalle. “Come sta un uomo che ha passato quindici anni a bere in bar diversi da questo? Male. Ma almeno è tornato.” Diego guardò l’orologio: 18:43. L’ora in cui tutto sembrava possibile, l’ora in cui la luce di Lisbona trasformava ogni cosa in oro. “Sai,” disse, “potrei venire con te. All’ospedale.” “Perché?” “Perché forse è ora che qualcuno spezzi il ciclo. E forse non deve essere per forza qualcuno della famiglia.” Miguel lo guardò a lungo, poi prese il blocchetto di post-it dal bancone e scrisse qualcosa. Lo attaccò accanto agli altri: “Alcune volte devi guardare la storia di qualcun altro per capire la tua.” Si incamminarono insieme verso l’ospedale di São José, attraversando le strade lastricate che sembravano sempre le stesse eppure erano diverse ogni volta. Il sole stava tramontando, e le ombre dei palazzi si allungavano come dita che cercavano di toccarsi. All’ingresso dell’ospedale trovarono Adele. Era seduta su una panchina, fumava una sigaretta – lei che non aveva mai fumato in vita sua. Quando li vide, spense la sigaretta sotto il tacco della scarpa. “Hai portato il filosofo,” disse a Miguel, ma sorrideva. “Il filosofo si è portato da solo,” rispose lui. Adele si alzò, abbracciò suo nipote, poi guardò Diego. “Sei pronto?” “Per cosa?” “Per vedere come finisce una storia che si ripete. O forse, come ricomincia in modo diverso.” Entrarono insieme nell’ospedale. L’odore di disinfettante si mescolava a quello della ginjinha che ancora avevano sul fiato. Al quarto piano, in una stanza alla fine di un corridoio troppo lungo, c’era un uomo che assomigliava a Miguel, che assomigliava a Diego, che assomigliava a tutti quelli che erano scappati e poi tornati. Diego estrasse l’ultimo post-it della serata e lo attaccò sullo stipite della porta: “Il destino non è quello che ti succede. È quello che scegli di farne.” Poi entrarono nella stanza, dove un’altra storia aspettava di essere riscritta.
Il padre di Miguel era esattamente come non se l’erano immaginato. Niente barba incolta da alcolista pentito, niente occhi arrossati dal rimorso, niente aria da figliuol prodigo. Era un uomo ordinato, in pigiama stirato, che stava facendo un cruciverba. “Sette lettere verticale,” disse appena entrarono. “Sinonimo di ripetizione.” Adele alzò gli occhi al cielo. “Quindici anni, António. Quindici anni e la prima cosa che dici è un cruciverba?” “Routine,” rispose lui, ignorandola e scrivendo le lettere nelle caselle. “La risposta è routine. Come la chemio che mi aspetta. Tutti i lunedì, mercoledì e venerdì. Una bella routine, eh?” Diego si ritrovò a ridere. Non poteva farne a meno. Era tutto così assurdo: lui, l’eterno fuggitivo, in piedi in una stanza d’ospedale con una famiglia di portoghesi che discuteva di cruciverba come se non ci fosse un domani – che, considerando la situazione, era un’ipotesi da non escludere. “Qualcosa di divertente?” chiese António, alzando un sopracciglio. “La vita,” rispose Diego. “È come un cruciverba mal tradotto. Pensi di aver trovato la soluzione giusta e invece hai solo fatto casino con le definizioni.” António lo guardò per un lungo momento, poi sorrise. “Mi piace questo italiano. Ha la faccia di uno che scappa bene.” “António!” lo rimproverò Adele. “Che c’è? Non si può più fare dell’ironia sul letto di morte?” “Non sei sul letto di morte,” disse Miguel. “No, infatti. Sono su un letto dell’ospedale pubblico, che è peggio. Almeno il letto di morte te lo scegli.” Diego tirò fuori il suo blocchetto di post-it. Era diventato un riflesso ormai, come grattarsi la testa quando si è in imbarazzo. “Oh no,” disse Adele. “Non anche qui.” Ma lui scrisse comunque: “La vita è un cruciverba: prima o poi ti ritrovi in orizzontale.” Lo attaccò sul comodino di António, che lo lesse e scoppiò a ridere. Una risata che si trasformò in tosse, che si trasformò in una bestemmia in portoghese. “Sai qual è la cosa più divertente?” disse António quando si fu ripreso. “Ho passato quindici anni a bere in tutti i bar di Lisbona tranne quello di Adele. Perché? Perché sapevo che prima o poi sarei dovuto tornare, e volevo avere almeno un posto dove non mi avrebbero riconosciuto. E invece guarda un po’: torno, e trovo un italiano che attacca post-it filosofici come se fossero cerotti sull’anima.” “La vita è ripetitiva,” disse Diego. “Come la chemio,” aggiunse António. “Come i cruciverba,” disse Miguel. “Come gli uomini che scappano,” concluse Adele. Si guardarono tutti, e poi scoppiarono a ridere. Una risata vera, di quelle che fanno male alle costole e bene al cuore. Fuori dalla finestra dell’ospedale, il solito gabbiano era tornato. Li guardava attraverso il vetro come se stesse pensando: “Questi umani sono proprio strani. Continuano a ripetere gli stessi errori e poi ci ridono sopra.” Diego prese l’ultimo post-it del blocchetto. Ci pensò un momento, poi scrisse: “Se il destino è una barzelletta, tanto vale essere noi la battuta finale.” Lo attaccò sulla finestra, proprio davanti al gabbiano, che questa volta non volò via. Forse aveva capito che alcune ripetizioni sono come il fado: tristi ma belle, inevitabili ma necessarie. O forse, più semplicemente, stava aspettando che qualcuno gli lanciasse delle briciole di pane. Perché alla fine, che tu sia un uomo o un gabbiano, tutti torniamo sempre dove qualcuno ci nutre l’anima. Anche se poi ci viene il diabete.
*Sul comodino di António, sotto una pila di cruciverba della settimana enigmistica tradotti male in portoghese, c’era un ultimo post-it che nessuno aveva notato. C’era scritto: “Plot twist: il destino ha un senso dell’umorismo. E fa pure battute di merda.”