Le luci di Spaccanapoli

di Charles Laval

Era una di quelle sere napoletane in cui il futuro sembrava sovrapporsi al passato, come un’immagine doppiamente esposta. Maria camminava per Spaccanapoli, la mano intrecciata a quella di Antonio, mentre i vecchi lampioni intelligenti si accendevano uno dopo l’altro, proiettando ologrammi pubblicitari sulle antiche pietre di tufo. “Sai cosa pensavo?” disse lei, guardando un drone-pizzaiolo che sfrecciava sopra le loro teste con una margherita fumante. “Pensavo che mia nonna raccoglieva limoni proprio dove ora c’è quella serra verticale.” Antonio sorrise, stringendole la mano. Non c’era bisogno di rispondere. Napoli era diventata un paradosso vivente: droni di consegna zigzagavano tra i panni stesi, pannelli solari brillavano sui tetti dei bassi, ma le vecchie signore continuavano a chiamarsi da un balcone all’altro come avevano sempre fatto. Passarono davanti a un edificio fatiscente, la cui facciata era ora coperta da uno schermo digitale che mostrava in tempo reale i sogni dei suoi abitanti. Era un’installazione artistica controversa, finanziata dal comune per “modernizzare” il centro storico. Le immagini si susseguivano: un bambino che sognava di pescare stelle dal mare, una donna che inseguiva un treno fatto di maccheroni, un vecchio che giocava a scopa con il Vesuvio. “Sono tutte storie,” mormorò Maria, “come quelle che ci raccontavamo da piccoli.” Il silenzio della sera fu interrotto dal suono metallico del tram magnetico che levitava silenziosamente sui binari invisibili. Le luci della città si riflettevano nelle sue fiancate cromate, moltiplicandosi come in un caleidoscopio. Si fermarono presso una piccola piazza, dove un gruppo di adolescenti giocava con un pallone olografico che cambiava colore ad ogni tocco. Un vecchio seduto su una sedia di plastica li osservava, fumando una sigaretta elettronica che emanava volute di vapore profumate al caffè. “Le cose insensate sono le più sensate,” disse Antonio, indicando un gatto robotico che si leccava le zampe accanto a un vero felino addormentato. Mentre la notte avanzava, le storie della città iniziarono a emergere come sempre. Dal vicolo dei presepi, dove ora gli artigiani creavano pastori con stampanti 3D, si sentivano le voci dei narratori digitali che raccontavano le leggende del quartiere. Ma erano le stesse storie di sempre: di amori impossibili, di miracoli quotidiani, di piccole magie nascoste tra i vicoli. Maria e Antonio continuarono a camminare in silenzio, le loro ombre proiettate sui sampietrini dalle luci cangianti della città. I loro chip neurali avrebbero potuto permettere loro di comunicare istantaneamente, ma preferivano il silenzio complice di due anime che si comprendono senza bisogno di parole. Sopra di loro, la luna illuminava il golfo come aveva sempre fatto, indifferente ai droni e agli ologrammi, alle pubblicità volanti e ai sogni digitalizzati. Napoli restava Napoli: un posto dove il futuro non aveva mai fretta di cancellare il passato, ma preferiva danzarci insieme in un valzer eternamente sospeso tra ciò che era e ciò che sarebbe stato. Svoltarono per il Decumano Inferiore, dove i mercati olografici si sovrapponevano alle antiche botteghe. Un venditore di limoncello quantistico – così lo chiamavano, perché il liquore cambiava sapore in base all’umore di chi lo beveva – li chiamò dal suo negozio, le cui pareti erano tappezzate di bottiglie luminescenti. “Il porto è cambiato,” osservò Maria, mentre si avvicinavano alla zona del molo. Le antiche banchine erano state sostituite da piattaforme fluttuanti auto-livellanti, che si alzavano e si abbassavano seguendo il ritmo delle onde. Pescherecci tradizionali si alternavano a moderne imbarcazioni a energia solare, i cui scafi trasparenti permettevano di vedere i pesci che nuotavano nelle vasche di allevamento sottomarine.

La Galleria Umberto I era stata trasformata in un giardino verticale climatizzato, dove piante rare crescevano sui muri e sul soffitto di vetro, creando un’oasi di verde nel cuore della città. Ma gli anziani continuavano a riunirsi lì per giocare a carte sui tavoli olografici, proprio come facevano i loro nonni sui vecchi tavolini di ferro. Nel quartiere spagnolo, i vicoli stretti erano ora illuminati da stelle artificiali che cambiavano colore in base al passaggio delle persone. Gli scugnizzi non giocavano più a pallone tra i vicoli, ma si sfidavano in partite di calcio aumentato, dove il campo da gioco si estendeva verticalmente sui muri dei palazzi, sfidando la gravità con la realtà virtuale. “Guarda,” sussurrò Antonio, indicando un gruppo di lazzaroni moderni che dormivano su panchine anti-gravitazionali, i loro corpi sospesi a mezz’aria mentre i visori per la realtà virtuale li trasportavano in sogni digitali. Accanto a loro, un’anziana signora stendeva ancora i panni tra i palazzi, ma la sua corda era fatta di fibre ottiche che asciugavano istantaneamente i vestiti. Il Vesuvio, eternamente presente sullo sfondo, era ora circondato da una rete di sensori olografici che mostravano in tempo reale l’attività del vulcano, trasformando i dati sismici in spettacoli di luci che danzavano intorno al suo cono. Ma il suo profilo rimaneva immutato, testimone silenzioso del passaggio del tempo. Passando per Forcella, videro i murales intelligenti che raccontavano la storia del quartiere: immagini in movimento che si trasformavano continuamente, mescolando scene di vita quotidiana del passato e del presente. Un bambino giocava a campana su quadrati olografici, mentre sua nonna preparava il ragù in una pentola che si auto-mescolava, ma il profumo era quello di sempre, inconfondibile e immutabile. “La città è come un palinsesto,” disse Maria, guardando le stratificazioni di storia e tecnologia che si accumulavano sui muri dei palazzi. “Ogni generazione aggiunge il suo strato, ma nessuno cancella veramente quello che c’era prima.” In lontananza, le sirene delle navi nel porto si mescolavano al ronzio dei droni da carico, creando una nuova melodia urbana che si fondeva con i suoni tradizionali della città: le voci dei venditori, il clacson dei taxi volanti, il brusio delle conversazioni sui balconi, il rintocco delle campane delle chiese che ora suonavano attraverso ologrammi sonori. La notte si era fatta più profonda, e i vicoli di Napoli sussurravano le loro storie con voci nuove. Maria e Antonio si trovarono davanti all’antica Chiesa di Santa Chiara, dove il chiostro maiolicato era stato potenziato con proiezioni quantistiche che facevano danzare le figure dipinte sulle mattonelle. I santi si muovevano tra le colonne, raccontando le loro storie a chiunque si fermasse ad ascoltare. “Mia madre diceva sempre che a quest’ora escono i fantasmi,” disse Antonio, mentre un ologramma di San Gennaro attraversava il cortile, il suo sangue digitale che si liquefaceva in una cascata di pixel rossi. Il quartiere dell’Università era un brulicare di studenti che si muovevano tra lezioni olografiche all’aperto. Federico II, il più antico ateneo laico del mondo, aveva mantenuto la sua austera facciata medievale, ma nelle aule gli studenti dialogavano con avatar di filosofi del passato. Aristotele e Vico dibattevano in piazza, le loro figure proiettate discutevano dell’intelligenza artificiale con giovani dalla mente brillante quanto i loro dispositivi neurali. Si fermarono in una antica pizzeria, dove il forno era ancora a legna – una rarità.

Il pizzaiolo, un uomo dai capelli bianchi, impastava con le mani mentre suo nipote controllava la temperatura con sensori quantici. “La vera pizza si fa ancora col cuore,” diceva il vecchio, mentre i forni molecolari delle catene fast-food sfornavano pizze perfettamente calibrate nelle strade vicine. “Vogliamo salire al Vomero?” propose Maria. La funiculare era stata sostituita da capsule gravitazionali che fluttuavano silenziosamente sulla città, ma loro scelsero di fare le scale, come facevano i loro nonni. Ogni gradino aveva un sensore che suonava una nota diversa al loro passaggio, trasformando la salita in una melodia. Dal belvedere di San Martino, la città si stendeva sotto di loro come un presepe elettronico. I quartieri spagnoli erano un reticolo di luci pulsanti, mentre il porto splendeva di riflessi biomeccanici. Il mare era punteggiato da piattaforme galleggianti dove si coltivavano alghe luminescenti, creando costellazioni artificiali sulla superficie dell’acqua. “Guarda là,” disse Antonio, indicando un punto nella baia. Una vecchia barca di pescatori navigava accanto a un yacht a levitazione magnetica. Il pescatore lanciava ancora le reti a mano, mentre sensori subacquei mappavano i banchi di pesci con precisione millimetrica. Si sedettero su una panchina intelligente che si modellò automaticamente per accogliere i loro corpi. Un venditore ambulante passò offrendo sfogliatelle stampate in 3D, ma il profumo era quello autentico di sempre, quello che nessuna tecnologia aveva saputo replicare. “A volte penso che siamo come questa città,” mormorò Maria, guardando un gabbiano robotico posarsi accanto a uno vero. “Metà nel futuro e metà nel passato, sospesi tra ciò che eravamo e ciò che stiamo diventando.” La notte era ormai piena, e dal Vesuvio si alzavano le luci dei sensori sismici, creando un’aurora artificiale che si mescolava alle stelle. Nei vicoli sotto di loro, le voci della città continuavano il loro eterno dialogo: nonne che chiamavano i nipoti per cena, mentre i droni consegnavano la spesa; ragazzi che corteggiavano usando poesie generate dall’intelligenza artificiale, ma con le stesse parole d’amore di sempre. Un suono di campane digitali si diffuse nell’aria, mescolandosi al rumore dei motori ionici dei taxi volanti. Era mezzanotte, l’ora in cui la città sembrava sospesa tra due mondi. Antonio strinse la mano di Maria, e non c’era bisogno di chip neurali o realtà aumentata per capire cosa si stavano dicendo. Perché Napoli restava un posto dove i sentimenti più profondi si esprimevano ancora nel silenzio di uno sguardo, nel calore di una mano, nel battito di un cuore che nessuna tecnologia avrebbe mai potuto digitalizzare. Sotto di loro, la città continuava a vivere la sua vita paradossale, dove ogni innovazione si fondeva con una tradizione millenaria, creando qualcosa di unico: una Napoli che non era né futura né passata, ma eternamente presente, eternamente viva, eternamente sé stessa. Fu all’improvviso che la videro: una suora ultracentenaria che levitava a due metri da terra, spinta da un jet-pack arrugginito, attraversava Piazza del Plebiscito reggendo un vassoio di sfogliatelle olografiche. Il suo volo goffo e maestoso tracciava una parabola perfetta sopra la folla di turisti aumentati che fotografavano l’assurda scena con i loro occhi bionici. “La santità è questione di propulsione,” commentò un filosofo di strada, il cranio trapiantato con un processore quantico che elaborava aforismi in tempo reale. Maria e Antonio si fermarono a guardare. La suora atterrò delicatamente accanto alla statua di Padre Pio, anche lui aggiornato con un’aureola al neon che cambiava colore in base all’indice di beatitudine dei passanti. Un gruppo di scugnizzi digitali – bambini le cui proiezioni olografiche giocavano mentre i loro corpi dormivano nelle capsule criogeniche – le corse incontro, mendicando dolci virtuali. Fu in quel momento che il Vesuvio decise di sbadigliare. Non un’eruzione, ma un lungo, profondo sbadiglio elettronico, amplificato dai sensori sismici di ultima generazione. Il suono risuonò per tutta la città come il brontolio di un gigante annoiato dall’eternità. “È così che finisce sempre,” disse Maria, mentre una lacrima biodigitale le scivolava sulla guancia, programmata per evaporare prima di toccare terra. “Con uno sbadiglio.” Antonio non rispose. Guardava un vecchio posteggiatore abusivo che dirigeva il traffico dei taxi volanti usando una bacchetta fosforescente, con la stessa eleganza di un direttore d’orchestra alla Scala. Sopra la sua testa, le pubblicità olografiche proclamavano l’ultimo aggiornamento dell’anima: “Upgrade della coscienza 2.0 – Ora con il 50% di rimorsi in meno.” La città si preparava al sonno, o forse era il sonno che si preparava alla città. Dai bassi tecnologici emergevano ologrammi di nonne che cucinavano ragù virtuali in pentole quantistiche, il profumo simulato si mescolava a quello vero delle pizzerie ancestrali, creando un paradosso olfattivo che faceva starnutire i gatti robotici. “Sai cosa diceva sempre mio nonno?” chiese Antonio, mentre attraversavano l’ultima strada della notte. “Diceva che il futuro è solo un ricordo che non è ancora successo.” Un bambino passò correndo, inseguendo una palla fatta di pura luce. Dietro di lui, la sua ombra analogica correva nella direzione opposta, come se passato e futuro avessero deciso di giocare a nascondino. La luna, quella vera, guardava tutto questo con l’indifferenza di chi ha visto troppe prime e troppe ultime volte.

Sul lungomare, un gruppo di androidi ballava la tarantella, i loro circuiti che pulsavano al ritmo ancestrale del tamburo, mentre un corteo funebre 5G attraversava la scena, trasportando la salma olografica di un’epoca che non voleva morire. Maria e Antonio si baciarono, proprio mentre il sistema di illuminazione pubblica quantistica della città decideva di avere una crisi esistenziale, spegnendosi e riaccendendosi in un rave party di luci e ombre. Le loro labbra si sfiorarono nel buio intermittente, e per un istante, in quel bacio, tutto ebbe senso: il passato, il futuro, i chip neurali, le preghiere digitali, i sogni analogici, le paure quantistiche. E fu allora che Napoli, come faceva da millenni, si mise a ridere. Una risata che partiva dalle viscere della terra e saliva su per i vicoli, rimbalzava sui muri scrostati e sugli schermi al plasma, attraversava i cavi in fibra ottica e le antiche cripte, si mescolava al rumore dei droni e al canto delle sirene nel porto. Una risata antica e futura, sacra e profana, vera e artificiale. Perché Napoli restava l’unico posto al mondo dove il paradosso non era un errore di sistema, ma il sistema stesso. L’unico posto dove la fine non era mai veramente una fine, ma solo l’inizio di un’altra storia, di un altro miracolo, di un altro sbadiglio del Vesuvio. E mentre i primi raggi dell’alba digitale tingevano di rosa il cielo analogico, Maria e Antonio si persero tra la folla di santi elettronici e peccatori in carne e ossa, tra processioni aumentate e preghiere sussurrate, tra il rumore del futuro e il silenzio del passato. Due anime analogiche in un mondo digitale, due punti di luce nel grande presepe elettronico che era diventata la città. Perché in fondo, come diceva sempre il filosofo di strada col cervello quantico: “A Napoli, anche il futuro è nostalgia.”

La Galleria Umberto I era stata trasformata in un giardino verticale climatizzato, dove piante rare crescevano sui muri e sul soffitto di vetro, creando un’oasi di verde nel cuore della città. Ma gli anziani continuavano a riunirsi lì per giocare a carte sui tavoli olografici, proprio come facevano i loro nonni sui vecchi tavolini di ferro. Nel quartiere spagnolo, i vicoli stretti erano ora illuminati da stelle artificiali che cambiavano colore in base al passaggio delle persone. Gli scugnizzi del 2025 non giocavano più a pallone tra i vicoli, ma si sfidavano in partite di calcio aumentato, dove il campo da gioco si estendeva verticalmente sui muri dei palazzi, sfidando la gravità con la realtà virtuale. “Guarda,” sussurrò Antonio, indicando un gruppo di lazzaroni moderni che dormivano su panchine anti-gravitazionali, i loro corpi sospesi a mezz’aria mentre i visori per la realtà virtuale li trasportavano in sogni digitali. Accanto a loro, un’anziana signora stendeva ancora i panni tra i palazzi, ma la sua corda era fatta di fibre ottiche che asciugavano istantaneamente i vestiti. Il Vesuvio, eternamente presente sullo sfondo, era ora circondato da una rete di sensori olografici che mostravano in tempo reale l’attività del vulcano, trasformando i dati sismici in spettacoli di luci che danzavano intorno al suo cono. Ma il suo profilo rimaneva immutato, testimone silenzioso del passaggio del tempo. Passando per Forcella, videro i murales intelligenti che raccontavano la storia del quartiere: immagini in movimento che si trasformavano continuamente, mescolando scene di vita quotidiana del passato e del presente. Un bambino giocava a campana su quadrati olografici, mentre sua nonna preparava il ragù in una pentola che si auto-mescolava, ma il profumo era quello di sempre, inconfondibile e immutabile. “La città è come un palinsesto,” disse Maria, guardando le stratificazioni di storia e tecnologia che si accumulavano sui muri dei palazzi. “Ogni generazione aggiunge il suo strato, ma nessuno cancella veramente quello che c’era prima.” In lontananza, le sirene delle navi nel porto si mescolavano al ronzio dei droni da carico, creando una nuova melodia urbana che si fondeva con i suoni tradizionali della città: le voci dei venditori, il clacson dei taxi volanti, il brusio delle conversazioni sui balconi, il rintocco delle campane delle chiese che ora suonavano attraverso ologrammi sonori. La notte si era fatta più profonda, e i vicoli di Napoli sussurravano le loro storie con voci nuove. Maria e Antonio si trovarono davanti all’antica Chiesa di Santa Chiara, dove il chiostro maiolicato era stato potenziato con proiezioni quantistiche che facevano danzare le figure dipinte sulle mattonelle. I santi si muovevano tra le colonne, raccontando le loro storie a chiunque si fermasse ad ascoltare. “Mia madre diceva sempre che a quest’ora escono i fantasmi,” disse Antonio, mentre un ologramma di San Gennaro attraversava il cortile, il suo sangue digitale che si liquefaceva in una cascata di pixel rossi. Il quartiere dell’Università era un brulicare di studenti che si muovevano tra lezioni olografiche all’aperto. Federico II, il più antico ateneo laico del mondo, aveva mantenuto la sua austera facciata medievale, ma nelle aule gli studenti dialogavano con avatar di filosofi del passato. Aristotele e Vico dibattevano in piazza, le loro figure proiettate discutevano dell’intelligenza artificiale con giovani dalla mente brillante quanto i loro dispositivi neurali. Si fermarono in una antica pizzeria, dove il forno era ancora a legna – una rarità nel 2025.

Il pizzaiolo, un uomo dai capelli bianchi, impastava con le mani mentre suo nipote controllava la temperatura con sensori quantici. “La vera pizza si fa ancora col cuore,” diceva il vecchio, mentre i forni molecolari delle catene fast-food sfornavano pizze perfettamente calibrate nelle strade vicine. “Vogliamo salire al Vomero?” propose Maria. La funiculare era stata sostituita da capsule gravitazionali che fluttuavano silenziosamente sulla città, ma loro scelsero di fare le scale, come facevano i loro nonni. Ogni gradino aveva un sensore che suonava una nota diversa al loro passaggio, trasformando la salita in una melodia. Dal belvedere di San Martino, la città si stendeva sotto di loro come un presepe elettronico. I quartieri spagnoli erano un reticolo di luci pulsanti, mentre il porto splendeva di riflessi biomeccanici. Il mare era punteggiato da piattaforme galleggianti dove si coltivavano alghe luminescenti, creando costellazioni artificiali sulla superficie dell’acqua. “Guarda là,” disse Antonio, indicando un punto nella baia. Una vecchia barca di pescatori navigava accanto a un yacht a levitazione magnetica. Il pescatore lanciava ancora le reti a mano, mentre sensori subacquei mappavano i banchi di pesci con precisione millimetrica. Si sedettero su una panchina intelligente che si modellò automaticamente per accogliere i loro corpi. Un venditore ambulante passò offrendo sfogliatelle stampate in 3D, ma il profumo era quello autentico di sempre, quello che nessuna tecnologia aveva saputo replicare. “A volte penso che siamo come questa città,” mormorò Maria, guardando un gabbiano robotico posarsi accanto a uno vero. “Metà nel futuro e metà nel passato, sospesi tra ciò che eravamo e ciò che stiamo diventando.” La notte era ormai piena, e dal Vesuvio si alzavano le luci dei sensori sismici, creando un’aurora artificiale che si mescolava alle stelle. Nei vicoli sotto di loro, le voci della città continuavano il loro eterno dialogo: nonne che chiamavano i nipoti per cena, mentre i droni consegnavano la spesa; ragazzi che corteggiavano usando poesie generate dall’intelligenza artificiale, ma con le stesse parole d’amore di sempre. Un suono di campane digitali si diffuse nell’aria, mescolandosi al rumore dei motori ionici dei taxi volanti. Era mezzanotte, l’ora in cui la città sembrava sospesa tra due mondi. Antonio strinse la mano di Maria, e non c’era bisogno di chip neurali o realtà aumentata per capire cosa si stavano dicendo. Perché Napoli, anche nel 2025, restava un posto dove i sentimenti più profondi si esprimevano ancora nel silenzio di uno sguardo, nel calore di una mano, nel battito di un cuore che nessuna tecnologia avrebbe mai potuto digitalizzare. Sotto di loro, la città continuava a vivere la sua vita paradossale, dove ogni innovazione si fondeva con una tradizione millenaria, creando qualcosa di unico: una Napoli che non era né futura né passata, ma eternamente presente, eternamente viva, eternamente sé stessa. Fu all’improvviso che la videro: una suora ultracentenaria che levitava a due metri da terra, spinta da un jet-pack arrugginito, attraversava Piazza del Plebiscito reggendo un vassoio di sfogliatelle olografiche. Il suo volo goffo e maestoso tracciava una parabola perfetta sopra la folla di turisti aumentati che fotografavano l’assurda scena con i loro occhi bionici. “La santità è questione di propulsione,” commentò un filosofo di strada, il cranio trapiantato con un processore quantico che elaborava aforismi in tempo reale. Maria e Antonio si fermarono a guardare. La suora atterrò delicatamente accanto alla statua di Padre Pio, anche lui aggiornato con un’aureola al neon che cambiava colore in base all’indice di beatitudine dei passanti. Un gruppo di scugnizzi digitali – bambini le cui proiezioni olografiche giocavano mentre i loro corpi dormivano nelle capsule criogeniche – le corse incontro, mendicando dolci virtuali. Fu in quel momento che il Vesuvio decise di sbadigliare. Non un’eruzione, ma un lungo, profondo sbadiglio elettronico, amplificato dai sensori sismici di ultima generazione. Il suono risuonò per tutta la città come il brontolio di un gigante annoiato dall’eternità. “È così che finisce sempre,” disse Maria, mentre una lacrima biodigitale le scivolava sulla guancia, programmata per evaporare prima di toccare terra. “Con uno sbadiglio.” Antonio non rispose. Guardava un vecchio posteggiatore abusivo che dirigeva il traffico dei taxi volanti usando una bacchetta fosforescente, con la stessa eleganza di un direttore d’orchestra alla Scala. Sopra la sua testa, le pubblicità olografiche proclamavano l’ultimo aggiornamento dell’anima: “Upgrade della coscienza 2.0 – Ora con il 50% di rimorsi in meno.” La città si preparava al sonno, o forse era il sonno che si preparava alla città. Dai bassi tecnologici emergevano ologrammi di nonne che cucinavano ragù virtuali in pentole quantistiche, il profumo simulato si mescolava a quello vero delle pizzerie ancestrali, creando un paradosso olfattivo che faceva starnutire i gatti robotici. “Sai cosa diceva sempre mio nonno?” chiese Antonio, mentre attraversavano l’ultima strada della notte. “Diceva che il futuro è solo un ricordo che non è ancora successo.” Un bambino passò correndo, inseguendo una palla fatta di pura luce. Dietro di lui, la sua ombra analogica correva nella direzione opposta, come se passato e futuro avessero deciso di giocare a nascondino. La luna, quella vera, guardava tutto questo con l’indifferenza di chi ha visto troppe prime e troppe ultime volte.

Sul lungomare, un gruppo di androidi ballava la tarantella, i loro circuiti che pulsavano al ritmo ancestrale del tamburo, mentre un corteo funebre 5G attraversava la scena, trasportando la salma olografica di un’epoca che non voleva morire. Maria e Antonio si baciarono, proprio mentre il sistema di illuminazione pubblica quantistica della città decideva di avere una crisi esistenziale, spegnendosi e riaccendendosi in un rave party di luci e ombre. Le loro labbra si sfiorarono nel buio intermittente, e per un istante, in quel bacio, tutto ebbe senso: il passato, il futuro, i chip neurali, le preghiere digitali, i sogni analogici, le paure quantistiche. E fu allora che Napoli, come faceva da millenni, si mise a ridere. Una risata che partiva dalle viscere della terra e saliva su per i vicoli, rimbalzava sui muri scrostati e sugli schermi al plasma, attraversava i cavi in fibra ottica e le antiche cripte, si mescolava al rumore dei droni e al canto delle sirene nel porto. Una risata antica e futura, sacra e profana, vera e artificiale. Perché Napoli restava l’unico posto al mondo dove il paradosso non era un errore di sistema, ma il sistema stesso. L’unico posto dove la fine non era mai veramente una fine, ma solo l’inizio di un’altra storia, di un altro miracolo, di un altro sbadiglio del Vesuvio. E mentre i primi raggi dell’alba digitale tingevano di rosa il cielo analogico, Maria e Antonio si persero tra la folla di santi elettronici e peccatori in carne e ossa, tra processioni aumentate e preghiere sussurrate, tra il rumore del futuro e il silenzio del passato. Due anime analogiche in un mondo digitale, due punti di luce nel grande presepe elettronico che era diventata la città. Perché in fondo, come diceva sempre il filosofo di strada col cervello quantico: “A Napoli, anche il futuro è nostalgia.”

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