L’odore della pioggia

di Charles Laval

È una di quelle serate a Bruxelles in cui la pioggia non smette mai davvero di cadere. Si accumula nelle pozzanghere, rimbalza sui sampietrini della Grand Place, scivola lungo i muri Art Nouveau delle case di Saint-Gilles. Marco sta seduto al bancone del Le Archiduc, un jazz bar che puzza di storia e di whisky invecchiato, con le pareti che trasudano le melodie di cent’anni di musicisti. Non dovrebbe essere qui. Non dovrebbe proprio. Ha una presentazione domattina alle nove alla Commissione Europea, una di quelle robe assurde dove devi convincere trenta burocrati che il tuo progetto vale i loro soldi. E invece eccolo qui, con un bourbon davanti e il cellulare che continua a vibrare con le notifiche di Telegram. Lei è arrivata tre settimane fa. L’ha vista per la prima volta alla mensa della Commissione, quella del Berlaymont. Un’italiana, come lui, ma di un’altra direzione generale. Si sono scambiati sguardi sopra vassoi di insalata triste e pollo che sapeva di cartone. Poi, come succede in questa città dove nessuno è davvero di casa, si sono ritrovati allo stesso aperitivo organizzato dall’associazione dei funzionari italiani. “La verità,” pensa Marco mentre fa roteare il ghiaccio nel bicchiere, “è che non so un cazzo di lei.” Non sa che profumo usa, anche se si è ritrovato più volte a cercarne le tracce nell’ascensore dopo che lei era passata. Non sa che voce ha quando ride di gusto, perché nei corridoi della Commissione si parla sempre sottovoce, come in chiesa. Non sa nemmeno dove abita, anche se immagina sia da qualche parte a Ixelles, come tutti i nuovi arrivati. Eppure. Eppure non riesce a smettere di pensare a come sarebbe toccarle una mano, proprio ora che fuori fa un freddo cane e le mani di tutti sono ghiacciate. Non riesce a non immaginare come sarebbe vederla in estate, magari in qualche spiaggia della Puglia, con la pelle che prende colore sotto il sole. Il telefono vibra di nuovo. È lei. “Sei ancora sveglio?” Marco fissa lo schermo come se potesse materializzarla davanti a sé. In sottofondo, il sassofono attacca un assolo che sa di nostalgia e di possibilità. “Sono al Le Archiduc. Conosci?” La risposta arriva quasi subito: “Dammi venti minuti.” Il barista passa a pulire il bancone con uno straccio che ha visto giorni migliori. Marco ordina un altro bourbon, questa volta doppio. Non sa ancora se sta per fare la cosa più stupida della sua vita o se invece, finalmente, sta per iniziare a viverla davvero, la vita. La porta del locale si apre, facendo entrare un refolo d’aria fredda e l’odore della pioggia di Bruxelles. Marco non si volta. Non ancora. Aspetta di sentire il profumo di lei, quello che ancora non conosce ma che sa già che non dimenticherà mai. Il sassofono continua a suonare, e fuori la pioggia non accenna a smettere. Ma per la prima volta da quando è arrivato in questa città grigia e burocratica, Marco sente che potrebbe iniziare a chiamarla casa. O forse è solo il bourbon che parla. O forse è la prospettiva di conoscere finalmente il suono della sua risata, il colore dei suoi occhi quando si illuminano, il sapore delle sue labbra che sanno di pioggia di Bruxelles e di possibilità infinite. La porta si apre di nuovo. È lei. Questa volta Marco si volta, lentamente, come se avesse paura che un movimento troppo brusco possa far svanire tutto come un miraggio. Chiara – si chiama così, almeno questo lo sa – ha i capelli bagnati dalla pioggia e le guance arrossate dal freddo. Indossa un trench beige che Marco riconosce dai corridoi del Berlaymont, ma che non ha mai visto così: bagnato, un po’ sgualcito, tremendamente reale. “Mi sono persa due volte,” dice lei mentre si siede sullo sgabello accanto al suo. “Questa città è un labirinto.” “Dopo tre anni ancora prendo la metro nella direzione sbagliata,” risponde lui, e si sente immediatamente stupido. Di tutte le cose che poteva dire… Il barista si materializza davanti a loro con quella tempistica perfetta che solo i baristi dei locali jazz possono avere. Chiara ordina un gin tonic, e Marco nota che parla francese con un accento che è un mix particolare di italiano e qualcos’altro. Forse ha vissuto a Parigi, pensa. O forse è solo un’altra cosa che non sa di lei. “Domani hai la presentazione sul programma di ricerca, vero?” chiede lei mentre si toglie il trench. Sotto ha un maglione nero che Marco non ha mai visto. Si rende conto che l’ha vista sempre e solo in abiti da ufficio. “Come lo sai?” “Ho letto il tuo nome sulla lista delle presentazioni. Sono nel comitato di valutazione.” Marco sente il bourbon che ha bevuto trasformarsi in un peso freddo nello stomaco. “Merda.” Chiara ride, e finalmente Marco scopre com’è la sua risata vera, non quella educata delle riunioni. È un suono che riempie lo spazio tra loro, che fa voltare un paio di persone ai tavoli vicini, che fa sorridere persino il barista. “Tranquillo,” dice lei. “Mi sono già ricusata. Conflitto d’interessi.” “Conflitto d’interessi? Ma se non ci siamo mai…” “No,” lo interrompe lei. “Ma ho pensato che forse…” Si ferma, prende un sorso del suo gin tonic. “Ho pensato che forse avremmo potuto.”

Il sassofono ha smesso di suonare. Ora c’è solo il pianoforte, leggero, che sembra accarezzare l’aria tra loro. “Sai che è assurdo,” dice Marco dopo un momento. “Non so niente di te. Non so che musica ascolti, che libri leggi, se ti piace il mare o la montagna. Non so neanche di che parte d’Italia sei.” “Salento,” risponde lei. “Mare, sempre mare. E leggo quasi solo gialli, che è un po’ imbarazzante per una che lavora alla direzione cultura.” Fa una pausa. “E tu?” “Piemonte. Montagna. E leggo…” Si ferma, realizzando che non ricorda l’ultimo libro che ha letto. “A dire il vero, da quando sono qui leggo solo documenti della Commissione.” Chiara ride di nuovo, e questa volta Marco pensa che potrebbe davvero diventare dipendente da quel suono. “Vedi?” dice lei. “Ci sono voluti tre anni, una serata di pioggia e un locale jazz per scoprire queste cose. Bruxelles ha i suoi tempi.” Fuori, la pioggia ha finalmente smesso. Le strade brillano sotto i lampioni, e l’aria ha quel profumo particolare che ha Bruxelles dopo la pioggia: un mix di pietra bagnata, waffle e possibilità. “Ti va di camminare un po’?” chiede lui. Chiara annuisce, e mentre si infila di nuovo il trench dice: “Così magari mi fai vedere come si torna a casa. Tanto ormai hai capito che non so orientarmi in questa città.” Marco sorride. “Veramente pensavo che potevi essere tu a mostrarmi la strada. Io dopo tre anni ancora mi perdo.” Escono insieme nel freddo della notte, e mentre camminano fianco a fianco, le loro mani si sfiorano. Non sanno dove stanno andando, ma forse, pensa Marco, questo è esattamente il bello di Bruxelles: una città dove tutti sono un po’ perduti, dove nessuno è veramente di casa, e dove proprio per questo ci si può trovare nel modo più inaspettato. Il pianoforte del Le Archiduc continua a suonare dietro di loro, sempre più lontano, mentre loro si perdono nelle strade di una città che, per la prima volta, sembra un po’ meno estranea. Camminano per quasi due ore, perdendosi più volte, ritrovandosi sempre. Passanoper la Grand Place, dove i turisti notturni scattano ancora foto al municipio illuminato. Attraversano le Galeries Royales Saint-Hubert, dove l’odore del cioccolato resiste anche a quest’ora della notte. Salgono fino al Mont des Arts, dove la città bassa si stende sotto di loro come un tappeto di luci. “Non avevo mai visto Bruxelles così,” dice Chiara, appoggiata alla balaustra. “Di solito la vedo solo nel tragitto casa-ufficio-casa.” “È quello che facciamo tutti,” risponde Marco. “Ci dimentichiamo che oltre i corridoi della Commissione c’è una città vera.” Si sono raccontati molte cose durante la camminata. Marco sa ora che Chiara suona il violoncello, che ha un gatto che si chiama Kant (“Un nome pretenzioso, lo so”), che prima di Bruxelles ha vissuto sei mesi a Vienna. Sa che quando ride getta leggermente la testa all’indietro, che quando è nervosa gioca con un anello che porta all’indice destro, che ha una piccola cicatrice sopra il sopracciglio sinistro per una caduta da bambina. Chiara ha scoperto che Marco scrive racconti che non fa leggere a nessuno, che da piccolo voleva fare l’astronauta, che ogni domenica chiama sua nonna in Piemonte e si fa spiegare una ricetta nuova che poi non cucina mai. “Sai una cosa?” dice lei improvvisamente. “Prima, al Le Archiduc, quando mi hai scritto… stavo per non venire.” “E perché sei venuta?” “Perché ero stanca.” “Di cosa?” “Di fare quello che fanno tutti qui. Vivere come se fossimo sempre in una sala d’attesa. Come se la vita vera fosse da qualche altra parte, in Italia, o nel prossimo posto dove andremo. Come se Bruxelles fosse solo una parentesi.” Marco annuisce. Conosce quella sensazione. L’ha vista negli occhi di tutti i colleghi, l’ha sentita nelle conversazioni alla macchinetta del caffè, nei pranzi veloci in mensa, negli aperitivi che finiscono sempre troppo presto perché domani c’è una riunione importante. “E invece?” “E invece ho pensato che forse la vita vera è esattamente questo. Uscire in una sera di pioggia. Perdersi in una città che conosciamo solo a metà. Scoprire che la persona che hai visto mille volte in ascensore scrive racconti che non fa leggere a nessuno.” Si guardano e ridono, perché suona tutto un po’ assurdo detto ad alta voce, alle tre di notte, in cima al Mont des Arts, con le gambe stanche di camminare e la testa leggera non solo per il bourbon e il gin tonic. “Sai che tra due ore devo presentare quel progetto?” dice Marco. “Lo so. E sai che è una follia stare qui invece di dormire?” “Lo so.” Si guardano ancora, e questa volta non ridono. Marco pensa che forse dovrebbe baciarla, qui, ora, come nei film. Ma poi realizza che non sono in un film, sono a Bruxelles, sono due espatriati che stanno cercando di dare un senso a questa città che non è casa ma potrebbe diventarlo. “Ti va un caffè?” chiede invece. “Conosco un posto che apre prestissimo, fanno dei croissant decenti. Potrei ripassare la presentazione e tu potresti dirmi se faccio troppo l’italiano quando parlo.” “Fai sempre troppo l’italiano quando parli,” ride lei. “Ma sì, mi va un caffè.” Mentre scendono dal Mont des Arts, la città inizia a svegliarsi. I primi tram attraversano le strade ancora vuote, qualche panetteria comincia a profumare l’aria di pane fresco.

Il cielo sta cambiando colore, passando dal nero al blu profondo che precede l’alba. Marco pensa alla presentazione di tra poco, al fatto che sarà distrutto, che probabilmente balbetterà davanti ai trenta burocrati. Ma poi guarda Chiara che cammina al suo fianco, che ora conosce un po’ di più ma ancora non abbastanza, e pensa che ne vale la pena. Perché forse è questo il segreto di Bruxelles: non è una città che ti accoglie, è una città che ti sfida a trovare il tuo posto. Non è una città che ti regala niente, ma se hai il coraggio di perderti nelle sue strade in una notte di pioggia, di fare follie come presentazioni dopo notti insonni, di rischiare tutto per un caffè all’alba… ecco, forse allora Bruxelles diventa casa. E mentre entrano nel piccolo café che sta aprendo proprio ora, con l’odore di croissant appena sfornati che riempie l’aria, Marco sa che ricorderà sempre questa notte. Non come l’inizio di qualcosa – perché gli inizi non si riconoscono mai quando accadono – ma come il momento in cui ha smesso di vivere Bruxelles come una parentesi. Il sole sta sorgendo su una città che si sveglia, e loro sono ancora qui, stanchi ma vivi, con troppe cose ancora da scoprire l’uno dell’altra e una intera città da esplorare. E forse, pensa Marco mentre ordina due caffè, è proprio questo il bello: avere ancora così tanto da scoprire, così tanto da conoscere, così tanto da vivere.


Disclaimer: Il testo è un racconto di pura fantasia. Tutti i personaggi, i luoghi, gli eventi e le situazioni descritte sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non hanno alcun riferimento intenzionale a persone reali, viventi o defunte, a istituzioni, enti o organizzazioni esistenti. Qualsiasi somiglianza con la realtà è da considerarsi puramente casuale e non voluta. Gli eventi narrati non intendono rappresentare fatti storici reali né fare riferimento a situazioni o circostanze realmente esistenti. Il racconto è stato creato esclusivamente a scopo narrativo e di intrattenimento.

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