di Charles Laval
Era uno di quei pomeriggi parigini dove la pioggia non smette mai di raccontare storie. Seduto al Café de la Pluie, Marcel contava le gocce che scivolavano sul vetro appannato, ognuna portando con sé un ricordo di lei. La vide entrare, come un acquerello sfocato dalla pioggia. Il suo cappotto bordeaux, i capelli scuri raccolti in un modo che sfidava la gravità, proprio come faceva lei con le convenzioni. Si chiamava Louise, o almeno così aveva detto quella sera al jazz club di Rue Saint-Germain. Il pianista, un vecchio italiano con le dita nodose e un cappello consumato, suonava una melodia che sapeva di porto, di nebbia e di nostalgia. Marcel ordinò due cognac, anche se era solo. Uno per il ricordo, uno per dimenticare. La strada brillava come uno specchio rotto, riflettendo le luci dei bistrot e le ombre dei passanti. Un sassofono lontano mescolava le sue note con il rumore della pioggia, creando una sinfonia che solo Parigi sa orchestrare. “Monsieur, il suo conto,” disse il cameriere, svegliandolo dai suoi pensieri. Marcel pagò, lasciando una mancia generosa per il pianista che non c’era. Uscì nel freddo della sera, con il sapore amaro del cognac e dei ricordi sulle labbra. La pioggia continuava a cadere, instancabile narratrice di storie d’amore mai finite. Camminava verso casa, la risata di lei ancora cristallina come un bicchiere di champagne, dispersa tra le vie di una Parigi che sa custodire i segreti di chi ama troppo, troppo presto, o troppo tardi. Il taxi attraversava pozze di memoria, schizzando nostalgia sui marciapiedi deserti. Dalla radio usciva una vecchia canzone italiana, qualcosa sul tempo che passa come un treno nella notte. Marcel accese una sigaretta, il fumo si mescolava con la nebbia del parabrezza, disegnando il profilo di lei nell’aria umida. Rue des Artistes, Boulevard des Rêves Perdus, Avenue des Souvenirs – ogni strada un capitolo di quella storia iniziata per caso in un caffè qualunque. Il tassista fischiettava, ignaro di trasportare un cuore pesante di pioggia e jazz. L’Hotel de l’Amour Perdu apparve come un miraggio nella foschia. Marcel pagò la corsa con banconote umide di rimpianto. Il portiere lo accolse con un cenno, complice silenzioso di troppe storie simili. Nella stanza 23, quella con la vista sui tetti grigi di Parigi, il telefono restava muto. Sul comodino, un biglietto del concerto di quella sera – “Jazz au Petit Journal” – si arricciava ai bordi, come le labbra di lei quando sorrideva. La pioggia batteva sui vetri una melodia swing. Marcel si versò l’ultimo goccio di cognac dalla fiaschetta. Sul grammofono, un vecchio vinile gracchiava note di un tempo che fu, quando la Francia era solo una scusa per perdersi negli occhi di qualcuno. La notte scivolava lenta come una canzone blues. Dal piano di sotto saliva il suono di un pianoforte stonato, qualcuno provava “La Vie en Rose” con dita incerte. Marcel aprì la valigia di cuoio consumato – quella comprata a Milano in un pomeriggio di sole e rimpianti. Dentro, fra camicie stropicciate e cravatte color malinconia, trovò una fotografia sgualcita. Louise al Moulin Rouge, il rossetto sbavato dopo troppi Martini, una piuma di struzzo tra i capelli. La data sul retro diceva “Giovedì”, come se tutti i giovedì del mondo fossero racchiusi in quell’istante. Il portiere bussò con discrezione. “Monsieur, c’è una signora al telefono.”
La voce gracchiava attraverso il citofono come un vecchio disco di Edith Piaf. Marcel si alzò dalla poltrona damascata, quella che aveva visto troppe storie simili alla sua. “Pronto?” Solo il respiro della città che si mescolava con note di jazz lontane. Poi una risata, quella risata. “Marcel, sono al Blue Note. Il sassofonista suona la nostra canzone.” Il cuore fece una piroetta jazz, di quelle che solo un contrabbasso sa accompagnare. Scese le scale a due a due, il cappotto ancora aperto, la sciarpa dimenticata sul letto come un punto interrogativo di seta. La portineria vuota, solo il gatto nero che lo guardava con occhi da blues man. La Citroën nera lo aspettava sotto la pioggia, lucida come un pianoforte a coda. L’autista dormiva, il berretto calato sugli occhi, sognando forse New Orleans o Chicago. Marcel bussò sul vetro, svegliando sogni jazz in una notte parigina. Rue de la Musique era un pentagramma bagnato, le note scivolavano sui sampietrini come lacrime di ottone. Il Blue Note brillava nella notte come un clarinetto sotto i riflettori. Marcel si fermò sulla porta, il cuore che batteva il tempo di un assolo di batteria. Dentro, il fumo disegnava arabeschi blues nell’aria. Sul palco, un sassofonista cieco suonava per un pubblico di fantasmi e amanti perduti. Louise era seduta al bar, il bicchiere di gin intatto, le dita che tamburellavano sul bancone seguendo un ritmo che solo lei poteva sentire. Il barman preparava cocktail con la precisione di un pianista jazz, ogni shaker una battuta, ogni oliva una nota di silenzio. Marcel ordinò un Manhattan, come quella sera a New York, quando Louise ballava scalza sotto la neve di Times Square. Sul muro, un poster sbiadito pubblicizzava un concerto di Duke Ellington del ’53. La carta si staccava agli angoli, rivelando altri poster, altri concerti, altre vite. Il tempo, al Blue Note, era un jazzista capriccioso che improvvisava sul tema della memoria. Louise voltò la testa, i capelli neri come una notte senza luna. “Sapevo che saresti venuto.” La voce bassa, roca, come un sassofono sul finale di un pezzo troppo suonato. Il gin nel bicchiere tremò impercettibilmente, vibrando alla frequenza dei ricordi. Sul palco il sassofonista cieco inclinò la testa, come se ascoltasse una melodia proveniente da un altro tempo. Le sue dita danzavano sui tasti d’ottone, raccontando storie di amori perduti in stazioni ferroviarie, di baci rubati sotto portici bolognesi, di promesse sussurrate in balere di provincia. “Ho trovato il tuo biglietto nell’agenda del ’57.” Marcel si sedette, ordinando un altro Manhattan. Il barman annuì, complice silenzioso di conversazioni impossibili. “Era scritto su carta dell’Hotel Excelsior di Venezia.” Louise sorrise, quel sorriso che sapeva di assenzio e di domeniche piovose. “Venezia… Il campanile di San Marco batteva le tre, tu fumavi MS con filtro, io contavo i piccioni in piazza. Avevi una valigia piena di spartiti jazz e sogni da vendere.” Il contrabbassista attaccò un assolo, le note profonde rimbombavano nel locale come battiti di un cuore nascosto tra le assi del pavimento. Un vecchio con un cappello panama si alzò, attraversò la sala come un fantasma e uscì nella notte parigina, lasciando una scia di nostalgia e fumo di sigaro cubano. “Ho ancora il tuo disco.” Louise estrasse dalla borsa un vinile consumato. La copertina mostrava un pianoforte abbandonato in un campo di grano. “Jazz pour une nuit de pluie – il nostro disco.” Marcel sfiorò la copertina con dita tremanti. La carta era calda, viva, come se contenesse ancora il calore di quei pomeriggi passati ad ascoltarlo, sdraiati sul tappeto persiano del suo appartamento in Rue des Artistes. Il sassofonista cieco iniziò “Round Midnight”. Le note scivolavano nell’aria come gocce di pioggia su un vetro appannato. Louise chiuse gli occhi, le labbra si muovevano seguendo una melodia silenziosa. “Ti ricordi Buenos Aires?” chiese improvvisamente. “Il tango si mischiava al jazz nelle strade di San Telmo. Tu dicevi che era come mescolare il whisky col mate.” Marcel annuì, anche se lei non poteva vederlo. Buenos Aires era stata un errore magnifico, come bere champagne a colazione o suonare il piano alle quattro del mattino. Il barman posò un nuovo Manhattan sul bancone, la ciliegia rossa come il rossetto di Louise quella sera al Café de Flore. “Ho scritto una canzone,” disse Marcel, estraendo dalla tasca un foglio piegato in quattro. Il pentagramma era scarabocchiato a matita, le note si rincorrevano come pensieri febbrili. “Si chiama ‘Louise sotto la pioggia di Parigi’.” La carta tremò leggermente tra le sue mani.
Il sassofonista cieco girò la testa verso di loro, come se potesse vedere la melodia fluttuare nell’aria carica di fumo e memories. Louise prese il foglio, le dita sottili che tremavano come corde di chitarra. “Suonala per me,” sussurrò, la voce mescolata al fumo del locale come bourbon nel caffè. Marcel si alzò, attraversò la sala come in trance. Il sassofonista cieco si fermò, un sorriso appena accennato sulle labbra rugose. Il pianoforte nero brillava sotto le luci soffuse, aspettando pazientemente come un vecchio amico. La prima nota cadde nel silenzio come una goccia di pioggia su un lago addormentato. Poi un’altra, un’altra ancora. La melodia prese forma, lenta, sinuosa come il fumo delle Gitanes che Louise fumava sempre. Era una canzone che sapeva di rimpianto e di promesse, di stazioni ferroviarie all’alba e di caffè bevuti guardando la Senna scorrere indifferente. Louise si avvicinò al pianoforte, il bicchiere di gin abbandonato al bancone come un ricordo dimenticato. Si sedette accanto a lui, il profumo di gardenia che si mescolava alle note. “Non è mai stata la Francia,” mormorò Marcel senza smettere di suonare. “Era la pioggia. La pioggia e tu.” Il sassofonista riprese a suonare, seguendo la melodia come se la conoscesse da sempre. Il contrabbasso si unì, discreto, poi le spazzole sulla batteria, leggere come passi sulla neve. Louise appoggiò la testa sulla spalla di Marcel. Le sue lacrime cadevano sui tasti come pioggia parigina, ogni goccia una nota nuova nella melodia. Il locale si svuotò lentamente, come una marea che si ritira lasciando sulla spiaggia conchiglie di ricordi. Rimasero solo loro, il sassofonista cieco, e quella canzone che continuava a fluttuare nell’aria come un profumo ostinato. L’alba trovò il Blue Note deserto. Sul pianoforte, un foglio con un pentagramma scarabocchiato e una macchia di rossetto. Fuori, la pioggia aveva smesso di cadere, ma Parigi continuava a suonare jazz. Marcel camminava da solo sul Boulevard des Larmes Séchées, il cappotto aperto nonostante il freddo. Nel taschino, un biglietto profumato di gardenia: “Ci vediamo al prossimo temporale. Louise.” Il sassofonista cieco, sulla porta del locale, suonò le ultime note di “Round Midnight”. La musica si dissolse nell’aria del mattino come un sogno al risveglio, lasciando solo il sapore dolceamaro di una storia d’amore scritta in jazz sotto la pioggia di Parigi. Nella tasca di Marcel, il vecchio disco gracchiava silenziosamente la sua melodia eterna, mentre la città si svegliava in un concerto di clacson e promesse sussurrate. La Francia, la pioggia, Louise – tutto si fondeva in una sola nota, lunga e malinconica come un addio in una stazione qualunque.
Disclaimer: Il testo è un racconto di pura fantasia. Tutti i personaggi, i luoghi, gli eventi e le situazioni descritte sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non hanno alcun riferimento intenzionale a persone reali, viventi o defunte, a istituzioni, enti o organizzazioni esistenti. Qualsiasi somiglianza con la realtà è da considerarsi puramente casuale e non voluta. Gli eventi narrati non intendono rappresentare fatti storici reali né fare riferimento a situazioni o circostanze realmente esistenti. Il racconto è stato creato esclusivamente a scopo narrativo e di intrattenimento.