Luoghi dove ho imparato a restare

Old Fashioned con poco ghiaccio, la sigaretta elettronica appoggiata sul tavolo, una musica anni ’90 si diffonde nella sala del bar di Melfi. Voci di uomini anziani, qualche risata trattenuta, un paio di tavoli occupati da ragazzi del liceo. Non si distinguono le parole, ma è domenica e i discorsi saranno tutti avviluppati tra calcio, pettegolezzi locali, il nuovo sindaco, qualche battuta sul tempo che cambia troppo in fretta. Una signora sussurra all’orecchio della nipote, i loro compagni di tavolo controllano i cellulari, probabilmente per vedere i risultati delle partite, o forse per scrivere a qualche amica lontana. Due coppie di mezza età, vestite con quella eleganza provinciale di chi va a messa e poi passa al bar, si accomodano vicino alla finestra che dà sulla piazza. La musica, per fortuna, ci porta altrove, in uno di quei locali del centro Italia dove il tempo sembra essersi fermato, come nei racconti di Pavese quando descrive le colline e il vino. È domenica. Una domenica qualunque. Una domenica lucana, direbbe chi conosce questi posti. Il meglio sembra essere altrove, e noi non ce ne siamo nemmeno accorti, direi io: Domenico, trentadue anni, nato sotto il segno della bilancia, cresciuto all’ombra del castello, emigrato e poi tornato, come tanti qui. Da qualche tempo a questa parte non sopporto più le domeniche. Figuriamoci quelle qualunque. In verità sono molte le cose che non sopporto più. Non sopporto l’indifferenza delle persone, ma nemmeno l’eccessiva curiosità. Meglio una via di mezzo, che non genera fastidi e domande. Non sopporto il traffico del sabato sera sul corso, il silenzio assordante del lunedì mattina, le sue promesse non mantenute, le parole che non le ho detto, quelle che non avrei mai voluto ascoltare, quelle che avrei dovuto gridare e quelle che ormai mi definiscono quando torno qui. Non so stare troppo tempo con i parenti, la solitudine in paese mi schiaccia, il continuo raccontarsi mi stanca, le mezze verità mi innervosiscono. Non sopporto l’amaro lucano, miscelato con la coca-cola è come un rigore sbagliato mentre sei in vantaggio di un solo gol. Non sopporto i puristi della cucina locale, i nostalgici del passato, quelli che “si stava meglio quando si stava peggio”, quelli che non mangiano la carne il venerdì. Di loro non mi fido affatto. Ormai non tollero più il giro della domenica, le polemiche sui parcheggi sotto il castello, la retorica del “io me ne sono andato ma tu sei rimasto” e chi la alimenta. Le ragazze troppo belle che non escono mai la domenica, magari lo fanno il sabato ma gioca il Melfi e allora ciao. Quelle meno belle, invece, stanno comunque a casa la domenica, ma lo stesso ciao. Sto bevendo – piano piano – il mio old fashioned. Il barista è gentile, mi conosce da quando ero bambino, sa che sono tornato per qualche giorno e mi chiede se resto. Con la coda dell’occhio guardo distrattamente la ragazza appena entrata. È la figlia di una cugina di mia madre, ci siamo incrociati per anni sui banchi di scuola, al liceo flirtavamo durante le ore di matematica. Ha i capelli ricci, occhi castani profondi e cammina con quella leggera insicurezza di chi sa di essere guardata. Fossi uno di quelli mi alzerei e ci proverei subito. Non ho mai avuto il coraggio di rimorchiare, la fretta di concludere non è mai stato il mio forte. Ho sempre invidiato gli amici di Potenza, per nulla timidi e coraggiosi nel primo approccio. Così come nel secondo. E nel terzo.

Sono molto lento, ma credo sia più per pigrizia che per timidezza. Sono un maratoneta della seduzione, io. È che spesso mi manca la lucidità nelle situazioni importanti: tutta colpa di quel torneo mai vinto, a 17 anni, nel campetto dietro la cattedrale. La scena è questa, ve la racconto brevemente. Finale di torneo rionale, due squadre, il nostro quartiere contro quelli della parte alta del paese. Lancio dalle retrovie direttamente sul mio petto. Stop a seguire di destro, il mio piede migliore, e lunga corsa sulla fascia sinistra. Ho sempre giocato su quella fascia, dai 10 anni fino a quando ho smesso, non so perché. Io mi sono sempre sentito più attaccante puro, eppure le cose migliori le ho sempre fatte lì, su quella linea laterale che separa il campo dalla scarpata che porta al fiume. Ne dribblo uno, facile. Ne dribblo due, ma il secondo mi strattonava la maglia. Non cado e continuo la corsa senza fiato. Il pubblico urla, i nonni seduti sulle panchine si alzano in piedi. Mi dirigo verso il centro dell’area, i due difensori iniziano a convergere verso di me, si guardano, si parlano. Sono lì, vicini, sento il loro respiro, il loro sudore di luglio. Chiudo gli occhi, tiro sicuro. Traversa! La sento ancora addosso la delusione per quel legno, la frustrazione per quel gol mancato. È come un amore interrotto. Se solo avessi avuto più coraggio, più precisione e meno fretta. Quella traversa mi ha condizionato per molto tempo. Ricordo che nei mesi successivi decisi di non giocare più a calcio e di vendicarmi di quell’occasione persa dedicandomi alla fotografia. Fotografavo il castello da ogni angolazione, ogni giorno una prospettiva diversa, ogni ora una luce nuova. Ho sviluppato un archivio immenso, una raccolta di immagini che racconta la quotidianità di una fortezza normanna in mezzo ai palazzi moderni. Che beffa. Che buffo. In quel gol mancato e nella poca lucidità nei momenti decisivi è concentrato il succo del racconto della mia vita sentimentale, fatta di partenze affrettate, di giorni sprecati in aeroporti stranieri, di morsi e rimorsi, di viaggi in pullman tra Melfi e Roma, tra Roma e Milano, tra Milano e Berlino, di amari pentimenti per le poche ma buone occasioni perse. E di fotografie. Una cinquantina di foto che ancora conservo in una cartella sul computer, consumata dal tempo e dai backup mai fatti. C’è una frase di una canzone che dice: “ritorno nei posti dove sono stato felice sperando di ritrovare la felicità”; spesso la riascolto, quando voglio immergermi, con tutta la nostalgia del mondo, nei ricordi del tempo sfuggito, delle occasioni perdute, delle ore d’amore mai consumate. Nei sentimenti interrotti. C’è poi un’altra cosa che faccio da qualche tempo a questa parte: non torno più a Melfi. Lo so che vi sembrerà assurdo, dato che vi sto scrivendo da un bancone di un bar sotto il castello, ma è davvero una cosa rara. Restare lontano è una cosa necessaria. Voi non avete idea di quanto sia complicato starsene qui dopo una settimana di lavoro altrove, di stress, di paranoie accumulate, di precarietà consumata, di confronti scomodi e parlare intimo. Ora sono qui, in questo posto così familiare, ed aspetto. Un tempo, però, non ero così. Fino a qualche anno fa era tutto diverso, era come se le giornate fossero un periodo continuo, diffuso. Io me li ricordo ancora certi pomeriggi, a diciotto anni, quando il tempo era solo davanti. Come quella sera di giugno, quando dal castello vidi le luci della città accendersi una dopo l’altra, e capii che prima o poi sarei dovuto andare via, e che sarei tornato solo per scoprire che il posto era uguale, ma che ero io ad essere cambiato.

La vedo avvicinarsi, mi sorride. Forse è il momento di alzarsi e offrirle un drink. Forse è il momento di parlare di noi, di quello che è stato e di quello che poteva essere. Forse è il momento di dire finalmente quelle parole che non ho avuto il coraggio di pronunciare anni fa. O forse no. Forse è meglio un altro sorso del mio Old Fashioned, un cenno di saluto e continuare a guardare il castello dalla finestra, immobile e perfetto nella sua mancanza di risposte.nio, continuando a lavorare la pietra con gesti misurati. Sofia sospirò, guardando attraverso la finestra della bottega. Da lì si vedeva un angolo della piazza, con l’abbazia della Santissima Trinità che sembrava proteggere la città. “L’aria,” rispose infine. “Ha un odore diverso. E la luce, come filtra tra i vicoli. E il ritmo… a Milano corro sempre, qui il tempo sembra più… non so, più denso.” “È quello che cerco di spiegare a Marco quando parla di tornare a vivere qui,” intervenne una voce dalla porta. Era Teresa, la madre di Marco e Sofia, con una busta di pane appena sfornato che riempiva l’aria di profumo. “Mamma, ti ho detto che ci sto solo pensando,” protestò Marco. Teresa appoggiò il pane sul tavolo e iniziò a versare il caffè dalla thermos che aveva portato con sé. “Pensare è l’inizio di tutto, figlio mio. Io ho pensato per vent’anni di lasciare Venosa, ma poi…” “Poi hai incontrato papà,” completò Sofia con un sorriso affettuoso. “E ho capito che a volte le radici sono più importanti delle ali,” concluse Teresa, porgendo una tazzina a suo fratello Antonio. Marco prese il caffè e si avvicinò alla finestra. Da lì poteva vedere la gente che cominciava ad animare la piazza: anziani che si ritrovavano sulle panchine, madri che accompagnavano i bambini a scuola, turisti già in cerca del museo archeologico. “Non è solo per papà che sono tornato,” disse infine. “È che dopo il terremoto… quando sono venuto per aiutare con i rilievi degli edifici danneggiati… ho sentito che questo posto mi chiamava.” Antonio annuì lentamente. “La terra parla, se la sai ascoltare.” Sofia si avvicinò al fratello e gli mise una mano sulla spalla. “Ma sei sicuro che non sia solo nostalgia? La vita qui non è facile, lo sai.” “Lo so,” rispose Marco. “Ma ho un’idea. Ho pensato a un progetto per recuperare le abitazioni del centro storico, creare un albergo diffuso, riportare vita nelle case abbandonate.” Teresa e Antonio si scambiarono uno sguardo.

“Dovresti parlarne con Maria Morra,” disse Teresa. “Lei sta cercando di fare qualcosa di simile con la sua associazione culturale.” “Maria è tornata a Venosa?” chiese Marco con curiosità. “È tornata l’anno scorso da Torino,” spiegò Antonio. “Ha aperto uno spazio per artisti nei locali dell’ex mulino. Vengono persone da tutta Italia.” Sofia osservò attentamente suo fratello. “Ti interessa il progetto o Maria?” Marco arrossì leggermente. “Il progetto, ovviamente.” Il campanile della chiesa batteva le otto quando la porta della bottega si aprì nuovamente. Una donna sulla trentina entrò portando con sé un’energia diversa, come una ventata d’aria fresca. “Buongiorno a tutti,” disse. “Antonio, sono venuta per la scultura che avevamo discusso.” “Maria!” esclamò Teresa, andandole incontro. “Stavo giusto parlando di te con mio figlio Marco.” Maria si voltò verso il giovane e lo osservò con attenzione. “L’architetto tornato dal nord? Ho sentito parlare di te.” Marco le tese la mano. “Tutto vero, anche se non sono ancora sicuro della parte del ‘tornato’.” “È sempre così,” commentò Maria con un sorriso. “Prima torni per una settimana, poi per un mese, poi ti ritrovi a piantare un orto nel giardino di famiglia.” Tutti risero, e l’atmosfera nella bottega si fece più leggera. Antonio offrì un caffè a Maria, che raccontò del suo progetto per trasformare l’ex mulino in un centro culturale. “Ma il problema sono i fondi,” spiegò. “E la burocrazia, ovviamente.” “Marco stava parlando di un’idea simile,” intervenne Sofia. “Un albergo diffuso nel centro storico.” Gli occhi di Maria si illuminarono. “Davvero? Sarebbe perfetto! Potremmo unire le forze, creare un circuito che valorizzi sia l’ospitalità che la cultura.” Marco sembrava titubante. “Non so se resterò abbastanza…” “Il tempo è relativo a Venosa,” disse Antonio, tornando al suo lavoro con la pietra. “Qui ogni cosa ha il suo momento. Come questa pietra: non posso forzarla, devo seguire le sue venature, rispettare la sua natura.” “Filosofo oltre che scalpellino?” lo prese in giro Maria con affetto. “È un maestro Zen travestito da artigiano lucano,” rispose Teresa, suscitando altre risate. La mattinata proseguì così, tra progetti, ricordi e possibilità. Maria invitò tutti all’inaugurazione di una mostra fotografica al mulino per il fine settimana. Marco promise che ci sarebbe stato, anche se nei suoi occhi c’era ancora quell’incertezza di chi non ha deciso dove appartenere. Quando Maria se ne andò, Sofia si avvicinò al fratello. “Ti piace, vero?” “Chi?” “Non fare il finto tonto. Maria, ovviamente.” Marco scrollò le spalle. “È interessante, come persona. Ha fatto una scelta coraggiosa tornando qui.” Sofia annuì. “Sì, ci vuole coraggio. Per andarsene, ma anche per tornare.” Nel pomeriggio, Marco decise di fare una passeggiata per la città. Si ritrovò quasi inconsapevolmente davanti all’ex mulino. Le grandi finestre erano state ripulite e restaurate, e all’interno si intravedevano opere d’arte contemporanea che contrastavano con l’antica struttura in pietra. “Sei venuto a spiare la concorrenza?” chiese una voce alle sue spalle. Maria era lì, con una scala e dei festoni colorati. “Stavo solo… esplorando,” rispose Marco, imbarazzato. “Sei fortunato, oggi è giorno di allestimento e siamo aperti. Vuoi darmi una mano?” Marco esitò solo un istante prima di accettare. Trascorsero le ore successive appendendo fotografie, discutendo di arte e architettura, condividendo storie di Venosa e del mondo là fuori. C’era una facilità nel loro dialogo che sorprese Marco. “Perché sei tornata davvero?” le chiese a un certo punto. Maria si fermò e guardò fuori dalla finestra, verso le case di pietra e le colline in lontananza. “Per l’aria,” rispose infine. “Ha un odore diverso qui. E per la luce, come filtra tra i vicoli. E per il tempo… a Torino correvo sempre, qui il tempo è più denso.” Marco sorrise, riconoscendo le stesse parole usate da sua sorella quella mattina. “È come se fossimo tutti connessi a questo posto,” continuò Maria. “Come se le pietre di Venosa fossero anche dentro di noi.” “Radici di pietra,” mormorò Marco. “Esatto,” annuì Maria. “Ma le radici non sono catene, sono forza. Da qui puoi crescere in qualsiasi direzione.” Quando il sole cominciò a calare, tingendo di rosa le antiche mura della città, Marco tornò alla bottega dello zio. Antonio era ancora lì, a rifinire la mensola con gesti lenti e precisi. “Come va il lavoro?” chiese Marco. “Quasi finito,” rispose Antonio. “E tu? Hai deciso se restare o partire?” Marco si sedette accanto allo zio e prese in mano uno scalpello, sentendone il peso familiare. “Non ancora. Ma oggi ho imparato qualcosa.” “Cosa?” “Che forse non devo scegliere tra restare e partire. Forse posso fare entrambe le cose, a modo mio.” Antonio sorrise, passando una mano sulla pietra ormai levigata. “Come diceva tuo nonno: la vita è come questa pietra. Non puoi cambiarla completamente, ma puoi scolpirla con pazienza fino a farne qualcosa di bello.” La sera calò su Venosa, avvolgendo le antiche pietre in un silenzio pieno di storie. Le stelle apparvero nel cielo, le stesse che avevano visto passare romani e longobardi, contadini e poeti. Marco le guardò dalla finestra della sua stanza d’infanzia, sentendo dentro di sé qualcosa di nuovo e antico allo stesso tempo, come un ricordo del futuro. “Radici di pietra,” sussurrò nel buio, mentre il sonno lo avvolgeva e Venosa continuava il suo dialogo silenzioso con il tempo, aggiungendo un altro strato alla sua storia millenaria.

Forse è tutto lì, in quel gesto piccolo, impercettibile. Quel mezzo sorriso che ti si disegna in faccia quando lei si ferma accanto al tavolo e chiede, quasi sottovoce: “Ti posso rubare una sedia?”. Le indico quella libera davanti a me, la più comoda, e lei si siede senza esitazione. Appoggia la borsa, guarda il bicchiere, mi guarda. “Sempre Old Fashioned, eh?”. Annuisco. Ha ancora quella voce che vibra di malinconia e decisione, come se ogni parola fosse pesata e poi lasciata andare, leggera. “Ti ho visto entrare”, dice. “Pensavo che non saresti tornato più.” “Anch’io.” Ci guardiamo per qualche secondo senza parlare. Intorno, il bar continua a vivere la sua solita domenica pomeriggio: una battuta sull’arbitro, lo scatto di una notifica, il tintinnio dei bicchieri. Niente cambia davvero, qui. Ma nel silenzio tra me e lei c’è tutto quello che ci siamo persi. “Sei cambiato,” dice poi. Non capisco se è un complimento, un rimprovero o solo un’osservazione. “Sì. Ma certe cose restano,” rispondo, e intanto penso alle fotografie, alla traversa, al castello, al mio tempo che non coincide mai con quello degli altri. Forse nemmeno con il suo. “Ti va di fare due passi?” chiede. E non c’è esitazione nella sua voce, questa volta. Mi alzo, lasciamo i bicchieri sul tavolo e usciamo dal bar, dove la luce del tramonto ha cominciato a stendersi sulle pietre antiche e sulle auto parcheggiate storte. Camminiamo in silenzio verso la salita che porta al castello. Ogni passo è un ricordo, ogni gradino un frammento di una vita che non abbiamo mai vissuto insieme davvero. Arrivati su, ci affacciamo alla terrazza che guarda la città. Le luci cominciano ad accendersi, proprio come quella sera di giugno che non ho mai dimenticato. “Sai,” le dico, “ogni tanto mi chiedo come sarebbe andata se avessi avuto più coraggio.” Lei sorride, ma non mi guarda. “E ogni tanto mi chiedo cosa sarebbe successo se tu fossi rimasto.” Restiamo lì, senza risposte. Ma c’è una calma diversa in quel silenzio. Una complicità che non chiede spiegazioni, che non pretende soluzioni. Solo la possibilità, anche solo per una sera, di restare. E allora sì, forse stavolta resto. Magari non per sempre. Magari solo per questa domenica. Ma resto. Perché ci sono gesti, sguardi e parole non dette che meritano almeno una sera per provare a diventare qualcosa. Anche se poi sarà solo un ricordo in più, archiviato insieme a una foto sfocata del castello al tramonto.

Lei si appoggia al parapetto, il vento le muove i capelli e per un attimo torna quella ragazza del liceo, quella delle ore passate a cercare di capire se un sorriso fosse solo un sorriso o un invito. “Te lo ricordi il prof di matematica?” chiede, con un tono divertito. Rido. “Quello che si fermava ogni tre minuti a raccontare di quando giocava a scacchi con gli alunni?” “Proprio lui. Diceva che la vita era come una partita: chi si muove troppo in fretta, perde.” “Peccato che io l’abbia capito troppo tardi.” Lei mi guarda, stavolta davvero. Occhi profondi, caldi, come la domenica che si spegne lenta sulla pietra. “Oppure no,” dice. “Forse siamo arrivati qui proprio nel momento giusto.” Sorridiamo entrambi, senza più peso. E ci sediamo sul muretto, come quando eravamo ragazzi, con i piedi che penzolano verso la scarpata. Di sotto, la città si distende come una fotografia lasciata al sole: sbiadita, ma ancora viva. Mi racconta della sua vita a Firenze, delle lezioni all’università, della casa condivisa con una coinquilina che cucina solo zuppe. Mi dice che sta per tornare, forse per restare. Mi dice che ha smesso di rincorrere tutto e che adesso preferisce guardare le cose che crescono piano, come gli ulivi, come certe amicizie, come certi ritorni. Le parlo anch’io, di Berlino, di un amore finito male, del lavoro che non mi rappresenta più, della voglia di ricominciare da qualcosa che abbia un senso. Le parlo di come Melfi, pur nella sua immobilità, a volte mi pare l’unico luogo dove sento di potermi ascoltare davvero. Le parlo anche della fotografia, di quel vecchio archivio pieno di scatti mai mostrati a nessuno. Lei ascolta, annuisce. “Dovresti fare una mostra,” dice. “Magari qui. Magari in estate, sotto il castello.” L’idea mi colpisce in pieno. Come un pallone fermo nel mezzo dell’area piccola, solo da spingere in rete. La guardo. “E tu verresti all’inaugurazione?” “Solo se fai le tartine con il salame piccante,” risponde, ridendo. Restiamo ancora un po’, mentre il cielo si colora di blu scuro e la piazza sotto comincia a svuotarsi. È uno di quei momenti che ti accorgi di vivere solo quando è già troppo tardi per rovinarlo. Un momento che sa di possibilità. Non promesse, non illusioni, solo possibilità. Che è già tanto, quando hai trentadue anni e tante mezze cose da raccontare. Poi ci alziamo, scendiamo in silenzio lungo la strada acciottolata. Lei prende la via per casa. Io torno verso il bar, passo a prendere la mia sigaretta elettronica rimasta sul tavolo, ormai spenta. Il barista mi guarda e sorride. “Rimani qualche giorno?” “Forse sì,” rispondo. “Forse anche un po’ di più.”
E mentre cammino verso casa, penso che forse – solo forse – domani farò una cosa che rimando da anni: aprirò quella cartella di foto, ne sceglierò una, e inizierò a scrivere il titolo della mostra. Magari lo chiamerò: “Luoghi dove ho imparato a restare”.

Ma per ora va bene così. È bastata una domenica. Una domenica lucana.
Una qualunque, che però non dimenticherò.


Disclaimer: Il testo è un racconto di pura fantasia. Tutti i personaggi, i luoghi, gli eventi e le situazioni descritte sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non hanno alcun riferimento intenzionale a persone reali, viventi o defunte, a istituzioni, enti o organizzazioni esistenti. Qualsiasi somiglianza con la realtà è da considerarsi puramente casuale e non voluta. Gli eventi narrati non intendono rappresentare fatti storici reali né fare riferimento a situazioni o circostanze realmente esistenti. Il racconto è stato creato esclusivamente a scopo narrativo e di intrattenimento.

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