Ma dove vanno i laurioti? Parte quinta – Il sindaco benvoluto e la “casa lauriota”

Ma dove vanno i laurioti? è un racconto/indagine in cinque puntate su un filone migratorio che condusse molti abitanti della città valnocina nel cuore del Brasile, alla “conquista” di un luogo che seppero far prosperare.

Sommario (clicca sul titolo per leggere le puntate precedenti):
Parte Prima. Storia di un nome e di molti cognomi
Parte Seconda. Le comunità parallele. Tra tradizione e immaginazione
Parte Terza. Ma poi, dove andarono i laurioti?
Parte Quarta. Storie di laurioti illustri in un luogo dimenticato

Parte Quinta. Il sindaco benvoluto e la “casa lauriota”

Nell’ultimo episodio ci siamo congedati parlando della famiglia dei Pittella, che ha legato la propria storia in maniera indissolubile allo sviluppo della città di Santos Dumont. Composta da vari fratelli, che poi a loro volta hanno dato vita ai rispettivi nuclei familiari, ha avuto una figura centrale in Carlo, tra i primi ad arrivare a Palmira (Santos Dumont) e considerato dallo storico Oswaldo Castello Branco uno dei pionieri della città, al pari dei quattro fratelli Albanese (Giuseppe, Vincenzo, Vittorio e Michele). I primi laurioti giunti a quelle latitudini si contraddistinguono soprattutto per le attività commerciali che avvieranno: tra esse spicca proprio la Casa Pittella, «a maior de todas, na rua do Matinho»; che, proprio nella stessa strada, doveva affrontare la concorrenza di un’altra attività lauriota, quella dei fratelli Biagio e Vincenzo Pansardi.

(incrocio tra praça Cesário Alvim e rua Afonso Pena, antica rua do Matinho,
angolo in cui si trovavano i due empori commerciali gestiti da famiglie lauriote)

Fondata nel 1875, la Casa Pittella fu gestita inizialmente in società tra Carlo e Giuseppe Albanese, e aveva una filiale nel municipio di Bias Fortes, a circa cinquanta chilometri da Santos Dumont (che allora, lo ricordo, si chiamava Palmira). Ebbe il suo periodo d’oro nei primi trent’anni del Novecento, durante i quali fu costruito il palazzo in cui ebbe sede – a detta di Castelo Branco, il più bel palazzo commerciale che all’epoca la città possedeva, e che purtroppo andrà distrutto agli inizi degli anni ’80, in concomitanza con la chiusura della storica azienda). Quando, in quegli anni, era presente in città il celebre aviatore Alberto Santos-Dumont, egli era solito rivolgersi alla Casa Pittella per rifornirsi del materiale necessario a manutenere la sua villa di residenza, la Casa de Cabangu.

A partire dal 1921, sulla sede di rua do Matinho fece bella mostra questa insegna:

«Casa Lauriota – de Carlos Pittella e Companhia – Negociantes e industriais – Palmira, Minas».

Negozianti e produttori: nei locali della palazzina in stile Liberty si vendevano prodotti di ferramenta, vini e farinacei. Era attiva inoltre nella distribuzione in altre città del paese del formaggio di quella regione, il cosiddetto queijo Minas, uno dei prodotti di eccellenza dell’agroalimentare tradizionale brasiliano. La parte industriale, invece, era rappresentata dalla fábrica de macarrão: produzione di pasta secca, venduta sia sfusa che impacchettata. La produzione di pasta, d’altronde, è stata una delle prime attività con cui gli italiani si sono fatti conoscere all’estero sotto il profilo produttivo, una produzione a carattere artigianale presente tra gli emigranti già nel corso del ‘700. Con la morte di Carlo Pittella, nel 1950, il controllo dell’impresa passerà nelle mani di suo genero, Giuseppe Palmieri; scomparso anche questi, nel 1978, saranno i suoi eredi a prendere le redini di un’attività che però era ormai alla fine del suo ciclo produttivo, tanto da non reggere più la concorrenza del mercato e infine chiudere, nel marzo del 1982.

rua prefeito José M. Pitela [Giuseppe Maria Pittella], sindaco di origine lauriota
che amministrò la città per ben tre mandati tra gli anni ’50 e ’60)

Attivo nel commercio locale era anche Luigi Cosentino, negoziante molto conosciuto in città grazie al suo negozio di calzature, e descritto nelle memorie cittadine come un abile affabulatore, dunque molto portato all’attività di vendita, tanto che «com o seu entusiasmo conseguia vender até o calçado que não era bem o da preferência dos fregueses» (p. 194). Per un certo periodo, attorno agli anni Cinquanta, tentò di rientrare in Italia, ma la sua permanenza nella madrepatria durò pochi mesi, in quanto scarse erano le opportunità di lavoro. Al rientro a Santos Dumont, portò con sé una bellissima effige dell’arcangelo Michele, che per molti anni è stata esposta nella chiesa madre della cittadina mineira, consacrata proprio a questa figura biblica.

Ho accennato a un altro stabilimento commerciale, quello dei fratelli Pansardi, che aveva sede a pochi passi dalla Casa Pittella, in pieno centro (come potete vedere dai link interattivi che ho inserito in questa parte finale dell’indagine). L’attrazione per chi vi si recava era una piccola scimmietta che accoglieva gli avventori saltando di scaffale in scaffale. Come detto, i fratelli erano inizialmente due: Biagio, che dopo alcuni anni trascorsi in Brasile fece ritorno in Italia, e Vincenzo, che invece sposò una donna del luogo, Antônia de Araújo, da cui nacquero tre figli: Eugenio, divenuto poi medico, Giacinta e Jacques Gabriel, il sindaco più celebre nella storia di Santos Dumont, per lungimiranza politica e, soprattutto, per essere stato l’artefice dello storico cambio di nome.

Jacques Gabriel Pansardi svolse l’attività di sindaco (prefeito) tra il 1931 e il 1945. All’incarico giunge dopo aver guidato, l’anno precedente, la parte politica a sostegno di Getúlio Vargas durante la cosiddetta Revolução de Outubro de 1930, il colpo di Stato che portò al governo del Brasile proprio l’uomo protagonista della vita politica del paese nei successivi venti anni. Durante i suoi mandati, la città conosce una stagione di notevole espansione: il suo governo, infatti, investe molto in opere pubbliche, dotando la municipalità di quelle infrastrutture fondamentali per renderla uno snodo importante sulla strada tra Belo Horizonte e Rio de Janeiro.

il trailer del film Getúlio, dedicato agli ultimi anni di potere e di vita del presidente brasiliano

Grazie alla sua personalità decisa, ma comunque sempre umile e cordiale, Jacques (non conosco la ragione del nome francese, forse un vezzo paterno?) entrò subito nelle grazie dei suoi cittadini, divenendo un faro per l’intera comunità che, dopo la sua morte – avvenuta quando aveva già superato abbondantemente gli ottanta anni, il 16 aprile 1974 – volle dedicargli una strada, così come era accaduto per Giuseppe Maria Pittella, di cui abbiamo parlato nell’episodio precedente e il cui nome identifica una delle vie del centro cittadino. Sempre Oswaldo Castello Branco, alla cui opera di ricerca devo buona parte delle informazioni riportate nel testo, ne dà una descrizione esemplare:

«Ele amou e serviu Palmira com a desambição de um apaixonado, dando a ela mais do que a sua fecunda capacidade de trabalho. Muitas vezes misturava-se com as turmas de humildes trabalhaores usando o mesmo instrumento de trabalho -uma enxada (una zappa, ndr) para abrir estradas […] o autêntico administrador acolhia com cordialidade a todos que o procuravam […] decidia com a extraordinária visão que tinha da realidade da sua amada Palmira» (p. 103).

Durante la sua amministrazione, Palmira ottenne una guarnigione militare permanente, che la rese un centro importante nella regione, oltre a dotarla dell’indotto che un presidio del genere poteva generare. Ma, soprattutto, è a Jaques Gabriel Pansardi che si deve il cambio di nome della città, da Palmira a Santos Dumont, all’indomani del suicidio del grande aviatore, occorso a San Paolo il 23 luglio del 1932, e che come ho fatto presente più volte lungo tutto il racconto, proprio a Palmira aveva avuto i natali. L’istanza, repentinamente presentata al ministero dell’Interno, venne riconosciuta con decreto presidenziale il 30 dicembre di quello stesso anno: da quel momento, la città acquisì il nome con cui la si designa ancora oggi.

29 maggio 1916: foto realizzata in occasione del pranzo offerto dalle autorità municipali di Palmira a Santos Dumont. Nella foto, scattata da Domenico Gerardo Sarubbi, compaiono tre illustri rappresentanti della comunità lauriota, già all’epoca personalità in vista della vita pubblica palmirense: da destra verso sinistra, Carlo Pittella (secondo), Jaques Gabriel Pansardi (terzo) e Nicola Albanese (quinto). Alberto Santos Dumont è l’uomo al centro, col cappotto in mano. La foto è patrimonio dell’archivio della Fundação Casa de Cabangu.
Domenico Gerardo Sarubbi

Siamo così giunti alla fine della storia. O meglio, alla fine di una parte della storia, perché credo che proprio ora debba ricominciare la ricerca nello spazio della memoria che ci lega a un luogo lontano sicuramente nella distanza geografica, non certo in una sostanza spirituale che lo rende prossimo a tutti i laurioti. Dovremmo farlo proprio per omaggiare sia la memoria di questi nostri concittadini che hanno saputo farsi valere in una comunità che a loro deve molto, sia per riconoscere a quella realtà gli stessi sentimenti di amicizia e accoglienza che seppe offrire a chi vi costruì dimora, trovando nella terra brasiliana quel “sogno intenso, raggio vivido” di cui si canta nel suo inno. Facciamolo anche per i discendenti di quei pionieri, che da generazioni ormai sono comunità “altra”, dal momento che per loro Lauria è stato sempre un luogo immaginario, un’isola che non c’è; ma che oggi, con le possibilità aperte dalla comunicazione multimediale, cominciano a rievocare, viaggiando e visitando, e in alcuni casi riscoprendo di essere laurioti altrove, con non poco entusiasmo.  

Faccio dunque un appello finale alle istituzioni locali: sarebbe davvero cosa buona se non si accontentassero dei totem agiografici di poche, seppur importanti figure per poter partecipare all’eucaristia dell’emigrazione. Sarebbe cosa buona se provassero a riallacciare un dialogo sopito decine di anni fa. Se ci provassimo davvero, attraverso programmi mirati di ricerca e scambio, potremmo recuperare i fili di una diaspora che appare perduta nel tempo. Ma che conserva ancora la forza di un’identità originaria, capace di evocare la più romantica delle storie.

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