Non dovrebbe esistere un problema 25 aprile se la politica non usasse il tema per alimentare divisioni da ultras

EDITORIALE – Conservo un documento della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, istituzione del regime fascista, del 1923. Si tratta di un attestato per la carriera da graduato nella milizia del mio bisnonno, definito nel documento: “di ottima condotta morale e politica, ottimo elemento fascista”.

Io sono cresciuto con gli insegnamenti di mio nonno, convintamente democratico e antifascista, democristiano. Era il figlio di quell’uomo del ‘23.

Vorrei provare a spiegare che in questo passaggio di generazioni è presente la soluzione al “problema” della ricorrenza del 25 aprile. Uno dei casi in cui si può fare storia scrivendo in prima persona.  

Non dovrebbe esistere un problema del 25 Aprile. Ma nel mondo politico italiano che spesso si riduce a uno scambio di slogan tra curve ultras, accade che una data simbolo diventi terreno di scontro e divisione. Non vale la pena analizzare la questione da un punto di vista politico, anche perché buona parte degli schieramenti hanno responsabilità di questo inutile scontro a causa di strumentalizzazioni. (Sarebbero troppe le domande da sviscerare: come si può oggi festeggiare e inneggiare alla resistenza non riconoscendo quella del popolo ucraino? Perché non riconoscere che il diritto di contestare il 25 aprile è una conquista del 25 aprile, quando si celebra la vittoria sulla dittatura?)

Ci limiteremo al lato della storia (che potrebbe fare un gran bene alla Politica, o ad alcuni politici, se la studiassero). 

La storia e la memoria sono come l’acqua e l’olio. Questo è il “problema” del 25 aprile. La memoria può essere pacificata, non può essere sempre condivisa. 

Non possiamo assistere a rivendicazioni di verità assolute basate sul fatto che esistono altri punti di vista. È certo che è così. Esistevano i fascisti e vi furono i partigiani. Ed erano tutti italiani. Esistevano quelli che credettero nel fascismo, quelli che lo sconfessarono, quelli che lo combatterono, quelli che vissero in un’Italia dove era normale esserlo. Tutti questi erano portatori di punti di vista diversi che coesistevano nel paese. Dal 1943 al 1945 c’è l’Italia della Resistenza, ma per una parte è anche quella della Repubblica di Salò, ma anche dell’occupazione tedesca, anche dei prigionieri, dei confinati, degli internati, dei bombardamenti alleati. Quante sono le famiglie di italiani che vissero l’Italia fascista in camicia nera e si ritrovarono convintamente repubblicane, democratiche, persino comuniste nel volgere di qualche processo storico? Quanti si riconoscereno nello stato democratico restando però legate alla destra estrema? Perché non riconoscerlo e tenerne conto?

Il processo storico è sempre complesso e non ammette semplificazioni come quelle dei libri che pretendono di raccontare “verità negate”. 

Esistono tante verità di tanti fatti storici ed esiste un esito di quelle vicende. 

Se dovessimo seguire la “memoria”, come potrebbe essere la storia scritta da una famiglia che racconta di un proprio parente prelevato dai partigiani e magari fucilato? Come sarebbe la storia se esaminata solo dal punto di vista del padre dei fratelli Cervi?

La storia deve considerare i fatti, deve valutarli tutti, deve tenere dentro tutti i punti di vista. Poi, può fare valutazioni (e liberamente posso dire: meglio che abbiano vinto i partigiani e gli alleati, penso che sia stata una gran cosa non avere più il fascismo o addirittura una occupazione della Germania di Hitler).

La prima verità storica, forse scomoda, sulla Resistenza Italiana è che fu una guerra civile.

Nei documenti tra il ’43 e il ’45 tutti usano questa espressione: “guerra civile”. Fu una guerra anche tra italiani e vide opporsi chi restò legato al fascismo, pur nella convinzione di combattere ancora per la Patria, chi nel fascismo non credeva più e voleva cambiare, chi voleva un’Italia nuova e democratica. 

Il movimento della resistenza fu riconosciuto dall’unico Governo ufficiale di quel periodo, che poi si aprì anche ai partiti antifascisti. 

Era un movimento essenzialmente composto da persone di ogni estrazione sociale e, soprattutto, da giovani italiani. Non solo settentrionali, ma anche meridionali: un esempio ci è fornito dalla consultazione di alcuni documenti del Ministero della Difesa presso l’Archivio Centrale dello Stato: 211 tra i partigiani del Piemente (il fronte più denso della lotta) erano Lucani. 

Una delle verità storiche, che spesso sfugge a chi propende per portare un solo punto di vista, è che il movimento della resistenza era fatto anche da molti soldati e ufficiali del Regio Esercito Italiano.

Un’altra verità, troppo spesso negata e altre volte enfatizzata, è che la Resistenza e le formazioni partigiane ebbero anche un peso militare determinante. 

La “liberazione” fu operata e conclusa dagli alleati. In questo contesto, i fatti dicono che le formazioni partigiane tennero impegnate nel nord Italia ben 7 divisioni tedesche. I partigiani, inferiori per numero e organizzazione, resero la vita impossibile ai nazisti. A dirlo non è la storia scritta dai partigiani, ma i documenti lasciati dagli stessi ufficiali tedeschi. Il colonnello Eugen Dollmann, capo delle SS a Roma, afferma che la città eterna fu la capitale europea che diede più filo da torcere alla Wehrmacht

Il valore e il ruolo militare della resistenza fu determinante.

L’Italia agli occhi degli alleati, dell’Europa e del Mondo era l’Italia fascista, probabilmente, anche dopo l’armistizio di Cassibile, una nazione sconfitta. Ma, tra il 1943 e il 1945 il valore della resistenza italiana cambia questa immagine. Sono ancora una volta i documenti a parlarne, non lasciando spazio ai revisionismi e ai processi delle intenzioni dei vari gruppi partigiani. Il Generale Alexander, capo delle forze alleate del Mediterraneo, affermò che aveva cominciato a rispettare gli Italiani quando a Roma, a via Rasella, in pieno centro città, un gruppo di giovani partigiani aveva osato sfidare un intero battaglione tedesco armato. 

La Resistenza Italiana fa vedere agli occhi del mondo che tanti giovani italiani rischiano la vita per una nuova Italia libera dalla dittatura.

Un sacrificio indispensabile che ritroviamo vivo e concretamente positivo, carico di effetti reali, quando il Presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, può rivolgere quel celebre discorso alla conferenza di Pace di Parigi del 1946, dinanzi alle Nazioni Unite che non ci vedevano più come l’Italia fascista e nemica:

Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.
[…] Ho il dovere innanzi alla coscienza del mio paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano, ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica  

De Gasperi seppe pacificare la memoria. In questo discorso tante famiglie pacificarono il loro futuro, così anche i figli dei fascisti del ’23 (quasi tutti) divennero i costruttori di un nuovo paese democratico e repubblicano.