C’è una scena del grande cinema d’autore che ha segnato, immediatamente e irrimediabilmente, il mio immaginario erotico: siamo nella New York anni ‘20 di C’era una volta in America, il capolavoro di Sergio Leone, e Patsy, uno dei ragazzi della banda di Noodles (il protagonista), è intento a scegliere il migliore pasticcino nella vetrina di un caffè ebraico nel Lower East Side. Sceglie una charlotte golosissima, la più costosa, da 5 cent, ricolma di panna e con ciliegina. Non è per lui, ma per Peggy, la ragazza del quartiere che si concede in cambio di regali. Patsy è adolescente, tremendamente attratto dalle forme femminili della giovane Peggy, è la sua iniziazione, e vuole consacrarla attirando la sua prescelta sull’altare dei piaceri palatali. Quel pasticciotto per il corpo della ragazza, la gola in cambio dell’origine del mondo (come l’avrebbe ribattezzata Gustave Courbet), ne vale la pena, ma Patsy ancora non sa che nessuno potrebbe resistere a quella grazia di Dio che porta in dono, è esso stesso oggetto erotico, un corpo di brioche con pelle di panna che incarna un peccato non meno sensoriale, e seduto sulle scale antistanti all’appartamento di Peggy, che si fa lungamente attendere, comincia pian piano a rubare parti di dolcezza, prima con un dito, poi con due, poi afferra la ciliegina, ma sì, rimane il resto, lei certo accetterà. Ma Peggy non esce. Patsy crolla, incapace di dominare il richiamo. L’argine cede, e quel resto si fa niente. Afferra la charlotte, la ingurgita, con avidità, con lussuria, è l’orgasmo che stava cercando. Peggy esce, ma ormai è troppo tardi. «Sarà per un’altra volta», chiosa Patsy.
Ecco, non credo che in altre occasioni il cinema abbia saputo restituire un’immagine più potente della voluttà dell’arte pasticcera. Della sensualità insita nelle sue apparenze, della subdola attrazione scatenata dai suoi aromi, dell’eccitazione data dall’esercizio di scelta al cospetto di una teca ben fornita. Platonicamente, la pasticceria è il luogo verso cui siamo spinti per cercare di colmare una mancanza: ecco perché in essa vi è eros, perché entrandovi ci poniamo tra ciò che è umano e ciò che è divino. E volendo restare dalle parti del filosofo ateniese, potremmo pure sostenere che per molti quelle forme colte coi sensi sono in grado di sollecitare la conoscenza di ciò che realmente è la felicità, di risvegliare quell’idea perfetta che conoscemmo in altri mondi, e che cominciamo a ricordare varcando la soglia di quei santuari di creme e paste lievitate.
Mi chiedo come farò a soddisfare il mio erotismo ora che la mia pasticceria di riferimento, mia come di un’intera comunità, si accinge a chiudere. Forse definirla semplicemente una pasticceria, per quanto mi riguarda, è pure riduttivo: per quarant’anni ha solleticato il mio olfatto, educandolo all’immaginazione delle cose gustose. Per quarant’anni mi è bastato affacciarmi al balcone di casa mia, per sapere cosa cuoceva in forno. Perché quando venni al mondo, quel laboratorio era già lì.
Come faremo, dunque, senza le paste di Lista? Senza le mitiche sfogliatelle, emblema delle mie colazioni felici («Mamma senti che odore, scendi da Lista a prenderne cinque»), le deliziose, i biscottini, gli anginetti, le code d’aragosta…quarant’anni di sfoglia sempre croccante, di panna mai rancida, di glassa impeccabile, di soffice naspro, di crema pasticcera leggera e delicata, di un giallo terribilmente invitante…

Eppure, tutto volge al termine, è la regola del tempo. Dobbiamo essere veramente grati a Grazia e Mimmo, così come ad Alfonso, Marisa e Caterina, che l’attività la avviarono negli anni ’70, quando era ubicata altrove. Dobbiamo essere grati a loro per aver educato i nostri palati a una dolcezza tanto semplice quanto sublime. Certo, sarà dura non accompagnare le nostre domeniche con cotanta grazia. Privarci dell’attesa del vassoio e della carta patinata, preludio al momento più atteso. Scartare, capire, scegliere. Riempirsi gli occhi di quelle architetture perfette di zucchero, uova e farina.
Forse a casa mia recupereremo un po’ di tranquillità domenicale, riuscendo ad aprire il garage puntualmente ostruito dalla vettura dell’avventore di turno; ma sono certo che sapremmo rinunciare anche a questa agognata conquista pur di continuare a godere di quei profumi e di quei sapori. Perché la chiusura di Lista è la chiusura di un’epoca: e il segnale che il tempo passa, si porta via piaceri e affetti; e così si invecchia. Vecchi si diventa quando cessano le piccole gioie di una vita. Non torneranno più i pomeriggi di maggio, e le merendine di quando ero bambino, citando Moretti; e, purtroppo, neppure le paste di Lista.
E, proprio per accettare meglio questa fatalità, voglio lanciare un estremo appello ai loro gestori: regalateci un ultimo giorno di piacere, un’ultima epifania dei vostri gusti, una sorta di black friday in cui riempirete la vetrina di tutto quello che siete stati in grado di sfornare in questi anni, riattivate a tutto motore e per un’ultima volta il forno, l’impastatrice, la planetaria. Il tutto per una conclusiva, grande festa in cui venire a perderci, in cui riattivare i ricordi delle papille gustative, in cui toccare con mano ciò che è stato e più non sarà.
Ad ogni modo, sappiate che avete regalato felicità. E non è poco, e non è mai tardi. Grazie.