Il nome è un presagio di oscurità: come se nella designazione fossero ancorati allo stesso destino l’essere sostantivo e aggettivo, simultaneamente. Forse si chiama così perché idealmente in quella parola si vuole rappresentare il duro vivere tra questi monti che tutto isolano: eppure, a ridosso del torrente Serrapotamo, nel parco del Pollino, tra alture coperte di faggi, ontani e platani, ipnotici nel trionfo cromatico dell’autunno, sorge il luogo che smentisce sé stesso, perché risplende di una luce chiara, brillante, dote della sua gente: Carbone.

Poco più di cinquecento abitanti, distribuiti lungo una decina di tornanti che scivolano per il centro abitato secondo le movenze di una biscia: la quale, sorniona, si introduce nel pollaio ingolosita da quello che potrebbe trovare. Innanzitutto un nucleo antico attentamente conservato: la pietra lavorata da secoli e riportata a rinnovato splendore è il prisma con cui questo luogo ameno riflette la luce propria, come atto di ribellione a quel nome impertinente, che trae in inganno l’immaginazione e la gola, sì, la gola, perché qualcuno potrebbe sostenere che il toponimo in realtà vuole richiamare l’eccellenza alimentare del luogo, il tartufo, nero come il carbone, se non fosse che qui prevale quello bianco, chiaro e pregiatissimo, tanto che quest’anno viene battuto a 4000€ al chilogrammo.

Eppure, quel nome è sigillo di nobilissima origine: deriva infatti dal monaco bizantino Luca Karbounes, venerato in quest’area (e non solo) come San Luca Abate, il quale qui, attorno all’anno mille, fondò l’abbazia di Sant’Elia e Anastasio, importante presidio del monachesimo meridionale di ispirazione orientale, di cui non rimangono che pochi ruderi, visitabili. Mi illumina sul senso della toponomastica il giovane sindaco del paese, Mariano Mastropietro, poco più di trent’anni, nel giorno in cui guida la sua comunità nelle prove generali dell’evento di tutti gli eventi, da queste parti: la sagra del tartufo. Sì, la prova generale, perché quella che prende forma in quest’ultima domenica di ottobre mentre il mondo è distratto dalle zucche vuote di Halloween, e mentre qui ci si districa tra fette di pane e caciocavallo arrostito e impreziosito da scaglie di purissimo tartufo bianco, che va a condire anche gli gnocchi in salsa chiara, dicevo quella che si manifesta ai miei occhi è il saggio di quanto avverrà nel weekend dell’Immacolata: segnatevi questa data.
Mariano è il vero eroe dei nostri tempi: ritornare nella sua terra per assumerne la guida, di fatto gratuitamente (solo oneri e pochissimi onori, per i sindaci delle piccole comunità), provando a conciliare questo gravoso impegno con l’attività dell’insegnamento, che lo entusiasma quanto fare il primo cittadino. Un eroe tra eroi, se proprio vogliamo rifugiarci in questa retorica da letteratura mitologica: facile condurre vite splendide tra le opportunità della città, venite a provarci qui, e poi ne riparliamo. Provateci come fa chi mantiene aperto uno spaccio, un tabacchino, chi è tornato per aprire un’attività cercando di invertire la lenta agonia delle aree interne. Certo, anche i paesi hanno diritto a morire, come sostenuto da chi ragiona sulle strategie da adottare per far fronte ai problemi dell’area appenninica, però prima che questo avvenga manteniamo viva una speranza di comunità, e cogliendo il momento propizio a quello che viene detto “turismo di prossimità” visitiamo i piccoli paesi dell’entroterra, in questo caso quello lucano. Andiamo a Carbone, Calvera, Teana, Fardella. Andiamo a raccoglierne i sapori, gli odori, ma soprattutto la voglia di vivere. Di esistere. Di resistere. Come un eroe omerico.