Roma – I Senatori del Partito Democratico Gianni Pittella e Valeria Fedeli, entrambi componenti della Commissione Affari Eu al Senato chiedono coraggio ed eurobond per gli investimenti. Di seguito la nota integrale:
“La curva dei contagi è così drammaticamente in crescita e l’uscita dal tunnel appare così lontana che interrogarsi su come rispondere, nel caso di specie su scala europea, alla Caporetto economica potrebbe apparire anzitempo, se non fuori luogo.
Eppure, mentre infuriava il secondo conflitto mondiale e le Potenze dell’Asse sembravano assumere il controllo del continente, Spinelli, Rossi e Colorni al confino su di un’isola remota ragionavano su come dare corpo al sogno democratico e risalente degli Stati Uniti d’Europa e trasfondevano questi intenti in un Manifesto politico.
Oggi, nel pieno di una crisi sanitaria che non ha precedenti recenti, l’Europa può decidere se farsi Stato, comunità di destini, luogo di speranza e solidarietà o se invece annacquare nel minimo sindacale del pannicello caldo, dell’inefficace e dell’effimero.
Le prime mosse della Commissione Van der Layen, anche grazie all’attivismo di Dombrovskis e Gentiloni sono certamente apprezzabili.
E tuttavia l’annunciata esclusione delle spese sostenute per far fronte all’epidemia dal calcolo del bilancio strutturale non è sufficiente.
Vorremmo fosse chiara una cosa. Non ci troviamo di fronte ad una calamità ordinaria, si perdoni l’ossimoro, cioè ad un evento non previsto che impatta negativamente sull’economia.
Ci troviamo dinanzi ad un evento sanitario che non sarà facile superare ma che rappresenta l’innesco di una drammatica crisi economica che riguarderà anzitutto la Cina e l’Italia ma che non risparmierà alcun paese del continente europeo e l’economia mondiale nella sua interezza.
La produzione industriale italiana è ancora 23 punti percentuali sotto il livello del 2007, prima dell’ultima crisi. Non ci siamo mai ripresi. E con questa crisi rischia di essere ben peggio, perché non è solo un problema di fiducia. Ma di organizzazione.
Di solito infatti le crisi economiche sono o di domanda (perché mancano i clienti) o di offerta (perché mancano i produttori). Questa invece è una crisi di catena di fornitura, di supply chain, o se vogliamo una crisi sia di offerta che di domanda. La chiusura delle fabbriche, il taglio delle forniture, la distruzione delle supply chain insistono sul lato dell’offerta; la perdita di fiducia e riduzione dei consumi, la riduzione dei viaggi e del turismo, il taglio delle spese per intrattenimento insistono sul lato della domanda.
E il rischio è che in un tempo medio-breve l’economia mondiale si riorganizzi sacrificando le aziende e i Paesi vittime del virus.
A parte evitare crisi di liquidità alle imprese, sospendendo pagamenti di tasse e interessi alle banche, non sarà un decreto del governo né una bonaria considerazione europea del deficit a riorganizzare la catena di fornitura di imprese grandi o a evitare che so che i committenti tedeschi dei nostri contoterzisti in Veneto e Lombardia si rivolgano altrove, in attesa della fine dell’epidemia.
Per questo, bisogna affrontare questa crisi non come una congiuntura passeggera ma alla maniera di un evento epocale come fu la crisi del 1929 durante la quale furono le straordinarie ricette di John Maynard Keynes, soprattutto per ciò che riguarda gli investimenti pubblici e il moltiplicatore sull’economia in presenza di investimenti dello Stato, a far uscire il mondo dalla desertificazione economica e sociale.
Che cosa servirebbe oggi, oltre ciò che si sta facendo?
Vanno bene, anzi sono necessarie le indicazioni che economisti accorsati stanno dando anche dalle pagine di questo giornale, o del Sole o del CorSera. Baban, Barucci e Pagani propongono un ambizioso e articolato piano di interventi che va dalle detrazioni fiscali alle esenzioni Iva, da super ammortamenti per investimenti diretti a prestiti al consumo a tassi zero su lunghissime scadenze, praticamente a fondo perduto. De Bortoli indica un ‘prestito eccezionale, non forzoso, bensì solidale, degli italiani’, l’equivalente del 2 per cento dei conti correnti bancari e dei depositi liquidi che non rendono nulla e anzi, si svalutano. Un prestito di durata trentennale, possibilmente nella forma di una maxi esenzione fiscale o ancora nella forma di una grande emissione di obbligazioni della Cassa Depositi e Prestiti capace di attrarre una cospicua parte del capitale privato.
Tutto molto interessante e prezioso a livello nazionale ma è l’ora che l’Europa non si limiti ad autorizzare, a scorporare, ad aggiustare.
È ora che la questione italiana diventi un modo per l’Unione di darsi nuove basi e fare il salto politico, quello che anche più recentemente è mancato al «whatever it takes», con il quale nel 2012 Draghi salvò l’euro, a cui non è seguito come ricordato da Draghi stesso un nuovo corso politico unitario nelle politiche fiscali.
A nostro avviso, la Banca Centrale Europea potrebbe abbassare ulteriormente i tassi di interesse (anche se già estremamente bassi); fornire liquidità alle banche con un nuovo Tltro (targeted longer-term refinancing operation) già adottato in passato; aumentare gli acquisti di titoli di stato, il QE, dagli attuali 20 miliardi di euro per mese, ad almeno 60mld; aumentare gli acquisti di titoli BEI per investimenti nella Ue e, sul lato vigilanza bancaria, prevedere una gestione meno onerosa per le banche dei crediti deteriorati delle NPL (Non Performing Loans).
Ma la vera svolta, noi pensiamo sia una vecchia nuova ricetta, a lungo inascoltata dall’Unione, la emissione di bond europei.
Nel 2011 Romano Prodi e l’economista Alberto Quadrio Curzio lanciarono l’idea di obbligazioni emesse dai singoli Stati nazionali ma garantite da tutti i Paesi dell’Unione, un modo per dare stabilità nella corresponsabilità al quadro economico e finanziario europeo. A differenza dei normali titoli di Stato, non sarebbero garantiti da un singolo Stato (l’Italia per i BTP, la Germania per i Bund) ma da tutti gli Stati che hanno adottato l’euro. Sarebbero quindi più sicuri anche del Bund tedesco e potrebbero eliminare le penalizzazioni che affliggono gli Stati più deboli dell’Unione europea e che prendono la forma dello spread.
Un’idea che prendeva atto della impossibilità di una messa in comune del debito, che a nostro avviso resta l’obiettivo a lungo raggio di una Unione politica degna di questo nome, ma che poteva rappresentare un primo passo verso un’integrazione qualitativamente più elevata.
Quella proposta fu rilanciata più volte dal gruppo Socialista e Democratico tra i banchi del Parlamento e sempre inascoltata.
In queste ore si fa largo una variante, non solo in Italia ma persino in Germania dal Prof Achim Truger, membro del consiglio dei grandi saggi del Governo tedesco.
Li potremmo definire solidarity bond, se si seguisse l’autorevole suggerimento dell’economista italiano Federico Carli, o ancora Eurobond di scopo, cioè degli eurobond la cui missione dichiarata e vincolata è nel finanziamento delle spese legate al contrasto del virus sia nel campo sanitario sia rispetto alle ricadute economiche.
Si potrebbe trattare di un ammontare considerevole di risorse, oltre i 50mld, capaci di realizzare finalmente un piano d’investimenti di largo respiro sulla base di un maggiore coordinamento delle politiche economiche degli stati membri.
Una vasta realizzazione di opere pubbliche per dare un impulso concreto alla crescita e quindi una risposta reale ai problemi di disoccupazione e di bassi salari che affliggono l’Europa.
Eurobond di questa natura avrebbero una miriade di effetti positivi: stabilizzazione dei debiti pubblici dei singoli stati con un effetto di scoraggiamento nei confronti della speculazione, riduzione dei tassi d’interesse necessari a rifinanziarli e stimolo tangibile alla crescita e all’occupazione nell’area dell’euro.
Perché rilanciamo tali Eurobond di scopo, se quelli ‘generici’ non hanno mai trovato vera udienza nei palazzi europei?
Per due ordini di motivi.
Il primo è perchè oggi i tassi sono negativi e quindi per i contribuenti europei c’è da guadagnarci ad emettere nuovo debito. E se i mercati dovessero avere difficoltà ad assorbire per intero le nuove emissioni i solidarity bond sarebbero perfetti per il Quantitative Easing della BCE. Tecnicamente quindi non ci sarebbe alcuna difficoltà.
Il secondo è perché non siamo più i soli, i Paesi del sud sprecone e irredimibile, a essere in difficoltà.
Quando purtroppo a breve, tutta l’Europa, a cominciare da Francia e Germania, sarà funestata dal virus e sull’orlo del baratro economico, sarà più facile scatti una solidarietà tra i popoli e una comunanza di destino europeo, l’unico destino possibile per i paesi del continente tutto”.