Radici di Pietra

La luce dell’alba accarezzava le antiche pietre di Venosa quando Antonio aprì la bottega di famiglia. A sessantacinque anni, le sue mani raccontavano una storia di fatica e devozione, scolpite dal tempo e dal lavoro come le pietre che lavorava. Sistemò gli attrezzi sul banco di legno consumato – scalpelli, martelli, lime – una liturgia che ripeteva da quarant’anni. “È presto anche oggi, zio Antò,” disse una voce alle sue spalle. Antonio si voltò sorridendo verso Marco, suo nipote, venticinque anni e uno zaino sempre in spalla, come se fosse pronto a partire da un momento all’altro. “Buongiorno al mio architetto preferito,” rispose Antonio. “Il mattino ha l’oro in bocca, lo diceva sempre tuo nonno.” Marco appoggiò lo zaino e si avvicinò al banco. Tra le mani dello zio c’era un pezzo di pietra locale, un calcare chiaro che sembrava respirare. “Cosa stai preparando?” “Una mensola per la chiesa. Don Pasquale dice che quella vecchia sta cedendo.” Marco osservò le mani dello zio che accarezzavano la pietra, come se cercassero di ascoltarla prima di inciderla. “Mi insegni?” chiese all’improvviso. Antonio alzò lo sguardo, sorpreso. “Dopo tre anni di università a Bologna vieni a chiedere a me di insegnarti qualcosa?” “All’università non insegnano quello che sanno le tue mani, zio.” Il vecchio artigiano sorrise e gli porse uno scalpello. “Tieni. Prima devi sentire la pietra, capire da dove viene, cosa vuole diventare.” In quel momento, la porta della bottega si aprì ed entrò Sofia, la sorella di Marco. Trentadue anni, una valigia eternamente pronta nell’armadio e gli occhi che cercavano sempre oltre l’orizzonte di Venosa.

“Buongiorno famiglia!” esclamò con l’energia di chi ha già bevuto tre caffè. “State preparando un’altra opera d’arte per la posterità?” “Tuo fratello vuole imparare il mestiere,” rispose Antonio. Sofia inarcò un sopracciglio. “Davvero? Il nostro Marco che si interessa alle tradizioni familiari? È un miracolo!” “Non prendermi in giro,” protestò Marco. “È che… non so… da quando sono tornato guardo Venosa con occhi diversi.” Sofia si sedette su uno sgabello, stringendosi nello scialle nonostante la mattina di maggio fosse già tiepida. “So cosa intendi. Anch’io quando torno da Milano sento qualcosa che mi manca quando sono lontana. Ma poi passa, e ricordo perché sono partita.” “Cosa ti manca quando sei lontana?” chiese Antonio, continuando a lavorare la pietra con gesti misurati. Sofia sospirò, guardando attraverso la finestra della bottega. Da lì si vedeva un angolo della piazza, con l’abbazia della Santissima Trinità che sembrava proteggere la città. “L’aria,” rispose infine. “Ha un odore diverso. E la luce, come filtra tra i vicoli. E il ritmo… a Milano corro sempre, qui il tempo sembra più… non so, più denso.” “È quello che cerco di spiegare a Marco quando parla di tornare a vivere qui,” intervenne una voce dalla porta. Era Teresa, la madre di Marco e Sofia, con una busta di pane appena sfornato che riempiva l’aria di profumo. “Mamma, ti ho detto che ci sto solo pensando,” protestò Marco. Teresa appoggiò il pane sul tavolo e iniziò a versare il caffè dalla thermos che aveva portato con sé. “Pensare è l’inizio di tutto, figlio mio. Io ho pensato per vent’anni di lasciare Venosa, ma poi…” “Poi hai incontrato papà,” completò Sofia con un sorriso affettuoso. “E ho capito che a volte le radici sono più importanti delle ali,” concluse Teresa, porgendo una tazzina a suo fratello Antonio. Marco prese il caffè e si avvicinò alla finestra. Da lì poteva vedere la gente che cominciava ad animare la piazza: anziani che si ritrovavano sulle panchine, madri che accompagnavano i bambini a scuola, turisti già in cerca del museo archeologico. “Non è solo per papà che sono tornato,” disse infine. “È che dopo il terremoto… quando sono venuto per aiutare con i rilievi degli edifici danneggiati… ho sentito che questo posto mi chiamava.” Antonio annuì lentamente. “La terra parla, se la sai ascoltare.” Sofia si avvicinò al fratello e gli mise una mano sulla spalla. “Ma sei sicuro che non sia solo nostalgia? La vita qui non è facile, lo sai.” “Lo so,” rispose Marco. “Ma ho un’idea. Ho pensato a un progetto per recuperare le abitazioni del centro storico, creare un albergo diffuso, riportare vita nelle case abbandonate.” Teresa e Antonio si scambiarono uno sguardo.

“Dovresti parlarne con Maria Morra,” disse Teresa. “Lei sta cercando di fare qualcosa di simile con la sua associazione culturale.” “Maria è tornata a Venosa?” chiese Marco con curiosità. “È tornata l’anno scorso da Torino,” spiegò Antonio. “Ha aperto uno spazio per artisti nei locali dell’ex mulino. Vengono persone da tutta Italia.” Sofia osservò attentamente suo fratello. “Ti interessa il progetto o Maria?” Marco arrossì leggermente. “Il progetto, ovviamente.” Il campanile della chiesa batteva le otto quando la porta della bottega si aprì nuovamente. Una donna sulla trentina entrò portando con sé un’energia diversa, come una ventata d’aria fresca. “Buongiorno a tutti,” disse. “Antonio, sono venuta per la scultura che avevamo discusso.” “Maria!” esclamò Teresa, andandole incontro. “Stavo giusto parlando di te con mio figlio Marco.” Maria si voltò verso il giovane e lo osservò con attenzione. “L’architetto tornato dal nord? Ho sentito parlare di te.” Marco le tese la mano. “Tutto vero, anche se non sono ancora sicuro della parte del ‘tornato’.” “È sempre così,” commentò Maria con un sorriso. “Prima torni per una settimana, poi per un mese, poi ti ritrovi a piantare un orto nel giardino di famiglia.” Tutti risero, e l’atmosfera nella bottega si fece più leggera. Antonio offrì un caffè a Maria, che raccontò del suo progetto per trasformare l’ex mulino in un centro culturale. “Ma il problema sono i fondi,” spiegò. “E la burocrazia, ovviamente.” “Marco stava parlando di un’idea simile,” intervenne Sofia. “Un albergo diffuso nel centro storico.” Gli occhi di Maria si illuminarono. “Davvero? Sarebbe perfetto! Potremmo unire le forze, creare un circuito che valorizzi sia l’ospitalità che la cultura.” Marco sembrava titubante. “Non so se resterò abbastanza…” “Il tempo è relativo a Venosa,” disse Antonio, tornando al suo lavoro con la pietra. “Qui ogni cosa ha il suo momento. Come questa pietra: non posso forzarla, devo seguire le sue venature, rispettare la sua natura.” “Filosofo oltre che scalpellino?” lo prese in giro Maria con affetto. “È un maestro Zen travestito da artigiano lucano,” rispose Teresa, suscitando altre risate. La mattinata proseguì così, tra progetti, ricordi e possibilità. Maria invitò tutti all’inaugurazione di una mostra fotografica al mulino per il fine settimana. Marco promise che ci sarebbe stato, anche se nei suoi occhi c’era ancora quell’incertezza di chi non ha deciso dove appartenere. Quando Maria se ne andò, Sofia si avvicinò al fratello. “Ti piace, vero?” “Chi?” “Non fare il finto tonto. Maria, ovviamente.” Marco scrollò le spalle. “È interessante, come persona. Ha fatto una scelta coraggiosa tornando qui.” Sofia annuì. “Sì, ci vuole coraggio. Per andarsene, ma anche per tornare.” Nel pomeriggio, Marco decise di fare una passeggiata per la città. Si ritrovò quasi inconsapevolmente davanti all’ex mulino. Le grandi finestre erano state ripulite e restaurate, e all’interno si intravedevano opere d’arte contemporanea che contrastavano con l’antica struttura in pietra. “Sei venuto a spiare la concorrenza?” chiese una voce alle sue spalle. Maria era lì, con una scala e dei festoni colorati. “Stavo solo… esplorando,” rispose Marco, imbarazzato. “Sei fortunato, oggi è giorno di allestimento e siamo aperti. Vuoi darmi una mano?” Marco esitò solo un istante prima di accettare. Trascorsero le ore successive appendendo fotografie, discutendo di arte e architettura, condividendo storie di Venosa e del mondo là fuori. C’era una facilità nel loro dialogo che sorprese Marco. “Perché sei tornata davvero?” le chiese a un certo punto. Maria si fermò e guardò fuori dalla finestra, verso le case di pietra e le colline in lontananza. “Per l’aria,” rispose infine. “Ha un odore diverso qui. E per la luce, come filtra tra i vicoli. E per il tempo… a Torino correvo sempre, qui il tempo è più denso.” Marco sorrise, riconoscendo le stesse parole usate da sua sorella quella mattina. “È come se fossimo tutti connessi a questo posto,” continuò Maria. “Come se le pietre di Venosa fossero anche dentro di noi.” “Radici di pietra,” mormorò Marco. “Esatto,” annuì Maria. “Ma le radici non sono catene, sono forza. Da qui puoi crescere in qualsiasi direzione.” Quando il sole cominciò a calare, tingendo di rosa le antiche mura della città, Marco tornò alla bottega dello zio. Antonio era ancora lì, a rifinire la mensola con gesti lenti e precisi. “Come va il lavoro?” chiese Marco. “Quasi finito,” rispose Antonio. “E tu? Hai deciso se restare o partire?” Marco si sedette accanto allo zio e prese in mano uno scalpello, sentendone il peso familiare. “Non ancora. Ma oggi ho imparato qualcosa.” “Cosa?” “Che forse non devo scegliere tra restare e partire. Forse posso fare entrambe le cose, a modo mio.” Antonio sorrise, passando una mano sulla pietra ormai levigata. “Come diceva tuo nonno: la vita è come questa pietra. Non puoi cambiarla completamente, ma puoi scolpirla con pazienza fino a farne qualcosa di bello.” La sera calò su Venosa, avvolgendo le antiche pietre in un silenzio pieno di storie. Le stelle apparvero nel cielo, le stesse che avevano visto passare romani e longobardi, contadini e poeti. Marco le guardò dalla finestra della sua stanza d’infanzia, sentendo dentro di sé qualcosa di nuovo e antico allo stesso tempo, come un ricordo del futuro. “Radici di pietra,” sussurrò nel buio, mentre il sonno lo avvolgeva e Venosa continuava il suo dialogo silenzioso con il tempo, aggiungendo un altro strato alla sua storia millenaria.


Disclaimer: Il testo è un racconto di pura fantasia. Tutti i personaggi, i luoghi, gli eventi e le situazioni descritte sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non hanno alcun riferimento intenzionale a persone reali, viventi o defunte, a istituzioni, enti o organizzazioni esistenti. Qualsiasi somiglianza con la realtà è da considerarsi puramente casuale e non voluta. Gli eventi narrati non intendono rappresentare fatti storici reali né fare riferimento a situazioni o circostanze realmente esistenti. Il racconto è stato creato esclusivamente a scopo narrativo e di intrattenimento.

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