La presenza di Franco Arminio a Rivello, alcune sere fa, ha permesso al numeroso pubblico presente di poter ascoltare l’accorata poetica dello scrittore irpino, da anni impegnato a dar voce alla bellezza ma anche al dramma delle aree interne, tanto da averne fatto una vera e propria disciplina, la “paesologia”.
Anche se a volte la narrativa arminiana scivola inevitabilmente verso la salmodia, di per sé appesantita da una retorica nella quale l’esigenza di esaltare il bello fa perdere negli echi ritmici la necessità di cantare con più forza la complessità del nostro meridione appenninico, il suo impegno ha avuto l’indubbio merito di riaccendere i riflettori su quelle aree del paese che da decenni si trovano a fare i conti con decrescita economica e demografica, inghiottite in quel turbine di angoscioso decadimento che sociologi, antropologi e urbanisti identificano in via generale con il processo chiamato “spopolamento”. A volte la poetica arminiana ci ha anche ricordato, con parole certo non soavi come quelle delle sue poesie d’amore, che buona parte della responsabilità delle condizioni di prostrazione vissute dalle aree interne meridionali (e non solo) sono da ascrivere a una politica distratta, aggiungo io animata da inadeguati improvvisatori, senza alcuna visione strategica per i loro territori, nessuno studio e preparazione, eccellenti solamente nell’antica arte della cura dei propri interessi particolari, spesso condotta con impudente strafottenza, che tradisce l’atavica convinzione dei potentati locali di poter fare quello che vogliono. Decenni di questa impostazione nella gestione della “cosa pubblica”, declinata ad affare privato, hanno impoverito territori altresì ricchissimi di risorse naturali e umane, che oggi si ritrovano a essere oggetto privilegiato della lirica di Franco Arminio. Il che è un triste paradosso, se pensiamo a quello che significa.
Eppure, proprio Arminio non ha mai perso occasione per evidenziare come, probabilmente, nei tempi contemporanei il modo migliore per vivere il mondo è nella sua “forma paese”. È questo d’altronde il punto di forza della sua opera di sensibilizzazione, al di là di qualsiasi valutazione letteraria. Provare a indicare una strada del ritorno che, come ogni ritorno, inverta una tendenza che per troppo tempo abbiamo considerato ineluttabile. Rievocando la potenza del paradosso, tale discorso ha riacquisito forza proprio nella contingenza del presente: i tempi del Covid, che nell’immaginario collettivo sono quelli della paura e della fragilità, hanno attualizzato più che mai il manifesto arminiano, rinvigorendo le teoriche potenzialità delle aree interne nell’offrire uno stile di vita più sereno e sostenibile.
E qui entra di nuovo in gioco la visione della politica, che a un certo punto deve avere la capacità di subentrare alle parole, seppur accattivanti, di un poeta; e deve farlo per porre le condizioni necessarie affinché, per davvero, tornare ad abitare la “forma paese” possa costituire una effettiva e percorribile alternativa all’abbrutimento della vita nei grandi centri urbani, sempre più cari, sempre più attraversati dalla tensione generata dalla gestione degli spazi di lavoro e di vita.
È compito della politica, sollecitata dal mondo della cultura, far sì che le aree interne appenniniche, così come il mezzogiorno italiano nel suo complesso, insomma quell’Italia dei paesi e delle piccole e medie città di provincia – che poi altro non sono che paesi un po’ più grandi – possano avere un richiamo effettivo su chi oggi continua a spendere il proprio tempo esistenziale e produttivo nelle realtà metropolitane, consumando ore nel traffico, nell’inquinamento, spesso nell’aggressività sociale che deriva dal doversi misurare quotidianamente con queste dinamiche. Il Covid ha fatto scoprire a un paese troppo condizionato da una concezione atrofizzata del rapporto tra lavoro e luogo di lavoro, tra produttività e presenza, una nuova dimensione che poi, a livello globale, tanto nuova non è: la possibilità per molti – e tra questi molti proprio quelli che vivono le problematiche delle grandi città – di svolgere il proprio lavoro lontano dai suoi abituali contenitori (azienda, ufficio, etc.). Lo smart-working può essere uno dei grandi alleati del ravvivamento delle economie delle aree marginali? Secondo me sì, ma anche secondo personalità molto più autorevoli di me (agi; sole24ore). Può aprirsi una prospettiva in cui il lavoro aziendale –ma non solo, anche quello creativo– possa essere svolto tornando a vivere nei luoghi di origine, o magari trasferendosi temporaneamente ma ciclicamente per alcuni mesi in aree dai ritmi di vita più blandi? È uno scenario possibile, che però può concretizzarsi se il governo dei territori saprà a sua volta “sprovincializzarsi” e orientare i giusti investimenti per potenziare collegamenti e strumenti. Infrastrutture più moderne e rete internet. I vantaggi in termini di riattivazione di tutta una serie di servizi sono chiari, chi oggi vive realtà di spopolamento ne avrebbe solo da guadagnare. Ma quale deve essere la giusta governance di questo processo, per far sì che non rimanga una mera utopia?
Mi piacerebbe aprire il dibattito sulle pagine di ivl24, sondando diverse opinioni. Intanto lancio la pietra nello stagno, e attendo che qualche voce si faccia viva.