EDITORIALE – Unire il rock al funk, al rap o all’hip hop? Non è una missione ardua, e gli Stones di Miss You, anno di grazia 1978, avevano già dimostrato quanto fosse possibile, mettendo le proprie sonorità in contaminazione con quelle della Motown.
Il punto, nella prima metà degli anni ’80, tra ondate punk e dance, era cercare di dare nuova linfa al rock, andando oltre sperimentazioni e semplici innovazioni, ma creando un vero e proprio movimento nuovo.
Ci provano nel 1984 quattro ragazzi, Anthony Kiedis, Michael Balzary (detto Flea), Hillel Slovak e Jack Irons che formano una band che già l’anno precedente, cominciando con piccole esibizioni che sono però strumentalmente già all’avanguardia, uniscono rap, funk, rock e punk. Il nome con cui si presentano suona strano, ma funziona. Loro sono (e saranno) i Red Hot Chili Peppers.
Tempo di firmare il contratto e registrare il primo album, però, che Slovak (chitarrista incredibilmente talentuoso ed eclettico) e Irons lasciano la band. Per sostituirli vengono chiamati il chitarrista Jack Sherman e il batterista Cliff Martinez, poi praticamente scomparsi dalla storia della band. La produzione viene invece affidata ad Andy Gill, chitarrista del gruppo post-punk Gang of Four.
Con Sherman e Gill le cose non vanno bene, e Kiedis e Flea non sono soddisfatti delle registrazioni, le quali, tuttavia, riescono comunque a catturare il nucleo di quello che poi diventerà il loro sound, che qui emerge specialmente in canzoni come Buckle Down, Police Helicopter e Get Up and Jump. Il titolo di quest’ultima rispecchia contenuto e struttura della canzone, dal ritmo veloce e pulsante. Altro segno distintivo è il giro di basso di Flea, considerato uno dei più sofisticati. Get Up and Jump fu la seconda canzone scritta dai Red Hot Chili Peppers, dopo Out in L.A.
Entrambe furono suonate dal vivo nei primi concerti del gruppo, quando si chiamavano ancora Tony Flow and the Miraculously Majestic Masters of Mayhem e non avevano ancora un contratto discografico.
Ma nel loro omonimo disco di esordio, pubblicato il 10 agosto 1984, c’è anche il primo grande classico del gruppo, True Men Don’t Kill Coyotes, per il quale viene girato un video promozionale; e ci sono alcuni interessanti esperimenti, come quello di You Always Sing the Same: la velocissima ripetizione del medesimo verso, per pochi secondi di aggressiva canzone.
Ma nel disco c’è molto più di ciò che ci si aspetta: da una parte abbiamo il rap/funk all’origine del sound che porterà i RHCP al successo negli anni successivi, e che si può ascoltare bene in un altro piccolo classico di inizio carriera: la già sopra citata Out in L.A. (che darà poi il nome ad una compilation di b-sides pubblicata nel 1994), dedicata a Los Angeles e alla vita nelle sue strade.
Dall’altra abbiamo un ammorbidimento e una levigatura del sound sorprendente, che per esempio in Mommy, Where’s Daddy? sfocia addirittura nel jazz, e che in ogni caso lascia spesso spazio a momenti fin troppo rilassati e posati per lo stile dei RHCP.
Un altro esempio è la cover di Hank Williams: Why Don’t You Love Me?
La canzone Police Helicopter venne scritta da Kiedis ispirandosi ad uno dei tanti elicotteri della polizia che sorvolavano i palazzi di L.A. in cerca di spacciatori e malviventi
Insomma, in questo primo album lo stile dei Red Hot Chili Peppers è certo ancora grezzo, incompleto, viziato da una produzione poco interessata (Gill, in un libretto di note, scrive la parola “shit” vicino al titolo di Police Helicopter), e da una mancata coesione strumentale che interverrà, tra i musicisti, solo con il ritorno in formazione di Slovak e Irons.
Ma nonostante questo, a risentirlo oggi The Red Hot Chili Peppers è un disco che riserva molte sorprese, specie se lo si ascolta cercando le tracce di quello che i peperoncini diverranno poi. Le premesse sono già tutte lì, e sono interessanti proprio perché già danno l’idea dell’originalità e dell’ispirazione dietro al genere proposto dai quattro. Come andrà la storia, poi, lo sappiamo bene…