#TellMeRock, 11 Dicembre 1974: i cinquant’anni di Stormbringer, l’ultimo grande “canto del cigno” dei Deep Purple

EDITORIALE – Uscito nello stesso anno di Burn, Stormbringer, pubblicato l’11 dicembre del 1974, è il suo degno successore pur non raggiungendone la vetta qualitativa.

I Deep Purple riaffermano il genere proposto nell’album precedente con l’aggiunta di un’ inaspettata influenza funky, che andrà a caratterizzare anche il successivo e sottovalutato “Come taste the band”.

Questo lavoro è anche l’ultimo della formazione Mark 3, infatti, proprio durante la sua composizione, cominciarono ad esserci varie discussioni interne; per esempio, i testi scritti dal cantante David Coverdale non andavano bene al chitarrista Ritchie Blackmore che voleva avere delle storie epicheggianti da affiancare alla sua musica. Inoltre, sempre Coverdale, cominciava ad avere problemi con Glenn Hughes, che nonostante fosse anche il bassista, continuava a pretendere più parti nei pezzi cantati (non si discutono infatti le sue eccellenti facoltà da screamer dotato di una voce pulita e tagliente, interpreterà quindi per intero la bella “Holy man”). Inoltre, dopo che la band aveva rifiutato di inserire nella scaletta una cover dei Quatermass voluta da Blackmore, quest’ultimo lascerà il gruppo per ripicca, andando a formare i grandi Rainbow, band dei suoi sogni dove (nonostante successive smentite ) instaura una vera dittatura in quanto deciderà tutte le canzoni da fare e i testi da scrivere.

Tornando all’album, la prima composizione è la title track, firmata Blackmore/Coverdale, che come si è già visto, si tratta di un’eccellente accoppiata, capace di toccare nel songwriting un livello ineguagliabile. Ed infatti si tratta di un brano molto intenso, quasi rabbioso, che si discosta un pò da tutto quello fatto dal gruppo dal 1970 a quest’anno… d’altronde si sa, il nome Deep Purple è sempre stato sinonimo del più ampio e vario contenuto musicale, avendo toccato un pò tutti i generi disponibili nel corso degli anni.


Segue Love don’t mean a thing a testimoniare la versatilità vocale dell’ottimo Coverdale, veramente a suo agio nel groove del blues-sound del nuovo corso dei Purple.

La track successiva è la già citata Holy Man, pezzo interpretato alla grande da un Hughes a dir poco fantastico. La canzone è lenta, con un senso leggero di malinconia che la rende unica.


Hold on è orecchiabile, semplice e ritmata, molto giocata sulle tastiere, ma non è certo la loro composizione migliore.


Lady Double Dealer apre il lato b (per chi è appassionato di vinile come me…) e rappresenta un ‘immersione nel passato, pezzo quindi hard-rockeggiante, veloce, con grandi assoli del maestro Blackmore.


You Can’t do it right è una buona song, non alla portata di chi snobba certe sonorità quasi soul, ma non si può certo mettere in cattiva luce un pezzo come questo nato dalla voglia di sperimentare nuovi percorsi musicali.

Un’altro brano che abbraccia appieno lo stesso discorso è High Ball Shooter, con un cantato funkeggiante alternato dalle due voci ufficiali del gruppo. Inutile dire che ha fatto storcere il naso a più persone, anche se è sempre presente una certa componente profondamente “porpora” non indifferente in questi lavori.


Il disco si chiude con due pezzi veramente fuori dal comune, affascinanti nella loro atmosfera drammatica, molto malinconica e, sicuramente, da annoverare tra le ballate più significative di sempre. Nella prima The Gypsy, un portentoso riff di Blackmore fa da base alle due voci che sembrano incastrarsi tra di loro alla perfezione, quindi una linea vocale ricavata dalla componente alta di Hughes e, quella più bassa e roca, ma non meno espressiva di Coverdale.


La finale Soldier of fortune (dove Blackmore, contrastato da Coverdale ,voleva affrontare dei testi alla Tolkien), rappresenta un ritorno ad una sonorità che ricorda molto “When a blind man cries”, il singolo di due anni prima, anche se sembra passato un decennio e Coverdale sembra davvero non far rimpiangere Gillan. Non sembrano esserci parole per descrivere una canzone che a più di dieci anni dal mio primo ascolto, sembra non voler stancare mai.


Il voto che do a questo disco è sincero e totalmente scevro di polemiche: le uscite targate Mark III per me sono tutte da 10. L’alchimia perfetta magari non si manifesta in tutti i brani, ma la tensione creativa (anche lo scontro) che si percepisce in alcune canzoni produce sempre risultati eccellenti. Nel nuovo corso intrapreso dai Deep Purple l’elemento meno a proprio agio e a volte fuori contesto è sicuramente Ritchie Blackmore, che difatti lascerà e andrà a formare i Rainbow, inanellando una serie positiva di capolavori non indifferente (ma anche lui, negli anni, finirà col tradire quel suono classico e puro che avrebbe voluto preservare per i suoi Deep Purple).

La Mark III è una cometa di eccessi e decadenze, ma anche di talento espresso a profusione; rappresenta una fase della carriera che io amo particolarmente per la grande capacità dimostrata di reinventarsi di questo imprescindibile gruppo, anche a rischio di snaturare alcune certezze ed alcuni assiomi consolidati dal tempo e dall’immenso, meritato successo. Dopo la Mark III (prima della reunion della Mark II del 1984) ci sarà l’ultima, folle accelerata della band inglese, con Tommy Bolin e Glenn Hughes alla guida (ma ubriachi al volante). Altra grande storia, che spero venga raccontata presto su queste pagine.