EDITORIALE – Siamo nel 1983, in piena epopea new wave.
Dal profondo sud degli Stati Uniti arriva il debutto sulla lunga distanza – dopo il già sorprendente ep “Chronic Town” – di un improbabile quartetto di nerd che di fatto chiude quella stagione, aprendo gli anni ‘80 del post punk e del rock alternativo.
Uno spartiacque fondamentale tra l’epica rock classica ( che si riverbera in particolare nel cristallino incedere jingle-jangle della chitarra di Peter Buck) e l’angoscia poetica e istintiva di un decennio alienante, svelata magistralmente da una sensibilità celebrale appena sporcata da scorie punk. Il tutto è plasmato dai vocalizzi di Michael Stipe: litanie orientaleggianti, gorgheggi mantrici da sciamano, quella placida voracità nello sciorinare parole incomprensibili ed emettere suoni funzionali al rapporto con la musica più che al loro senso compiuto. Un approccio che farà scuola, e che conferisce un tocco oracolare, misterioso e magnetico alle dodici composizioni di “Murmur”, album d’esordio dei R. E. M. pubblicato il 12 aprile di quarantuno anni fa.
Quasi tutti i pezzi hanno la statura del classico, a partire dalla celebre “Radio Free Europe”, in cui il vivido fantasma di Patti Smith danza su un ardente boogie chitarristico. In occasione dell’uscita di Murmur Michael Stipe rilasciò un’intervista al magazine Alternative America raccontando così degli esordi della band: “Immagina quattro persone che non erano mai state in una band, messe insieme. Eravamo tutti così spaventati da quello che avrebbe detto l’altro, che tutti facevamo sì con la testa a tutto ciò che veniva proposto. Le prime canzoni erano incredibilmente fondamentali, molto semplici, canzoni che potevi scrivere in cinque minuti. La maggior parte di loro non aveva parole”.
Il batterista Bill Berry, qualche anno dopo, marcò definitivamente l’importanza di Radio Free Europe per il percorso del gruppo: “Quel brano fu essenziale nella continuazione della nostra carriera. La maggior parte dei fan potrebbe non rendersi conto che per due anni, prima che Murmur fosse pubblicato, riuscivamo a malapena a far quadrare i conti, suonando in piccoli club. […] La radio del college e i club delle grandi città hanno abbracciato questa canzone e ampliato il nostro pubblico, così siamo passati da piccoli club a locali di medie dimensioni e le entrate aggiuntive ci hanno permesso di continuare questo selvaggio sforzo musicale! Non oso pensare a quale sarebbe stato il nostro destino, se questa canzone non fosse apparsa, quando è apparsa”.
“Pilgrimage” e “Laughing” asfaltano la strada di una carriera pluriennale, costellata da melodie impossibili e soffici fluorescenze folk-lisergiche, mentre con “Talk About The Passion” il canovaccio “byrdsiano” trova la propria pietra d’angolo, scolpita dagli istinti sessuali di Stipe.
Il resto dell’ album scivola via tra enigmi e silenzi, come nella favolosa pianistica di “Perfect Circle” o nel senso di disorientamento propinato da “Shaking through”, per poi illuminarsi della tenue luce del sole sudista in lucenti perle quali “Moral Kiosk”, “Sitting Still” e “West Of The Fields”, passando per l’andamento insinuante e nervoso di “9-9” e “Catapult”.
Altri e forse più importanti passi seguiranno il destino del disco: eletto album dell’anno da “Rolling Stone” nell’83’ mentre là fuori imperversava “Thriller” di Michael Jackson, “Murmur” non è forse il lavoro più bello nella discografia targata Buck, Stipe, Mills e Berry, bensì opera di influenza incalcolabile.
Da qualunque punto di vista o “udito” lo si ascolti, Murmur è il classico album che suonerebbe fuori dal tempo in qualunque tempo.
I suoi bagliori iridescenti, i suoi chiaroscuri disillusi saranno probabilmente gli ultimi a lasciare il cielo della Georgia, creando la dinastia di una band che scriverà la storia.
