EDITORIALE – Uno dei tentativi di Bowie di liberarsi dai confini del rock e dagli abiti di Ziggy Stardust.
Cominciamo dal sottotitolo: ci sono due date e mezzo: 1913, 1938 e poi tre sole cifre, 197 e un punto interrogativo. Questo è l’antefatto: Bowie scrisse Aladdin Sane nel dicembre del 1972, di ritorno dall’America. Aveva appena finito di leggere Corpi vili di Evelin Waugh, uno scrittore inglese che descriveva la frivolezza e la decadenza della società alla vigilia di una catastrofe.
Suggestionato dal libro, Bowie pensò che una terza guerra mondiale, vera o metaforica, potesse essere alle porte e immaginò che mancassero più o meno due anni.
Ecco spiegato il sottotitolo: le prime due date, 1913 e 1938, si riferiscono agli anni che hanno preceduto la prima e la seconda guerra mondiale, il punto interrogativo, posto alla fine delle tre cifre 197, indica che la terza guerra mondiale era imminente, e sarebbe stato quindi sufficiente aggiungere l’ultima cifra da lì a poco. Di sicuro tutto sarebbe accaduto prima della fine del decennio.
Il titolo invece è un gioco di parole nato da A Lad Insane, che significa “un ragazzo matto”. Bowie lo trasformò in Aladdin Sane, il “sano Aladino”. Aveva anche pensato a Love Aladdin Vein, ma “la vena di Aladino” presentava troppi chiari riferimenti alla droga per poter diventare un singolo di successo nella puritana Gran Bretagna dei primi anni Settanta.
Aladdin Sane è l’album che David Bowie pubblica il 13 aprile del 1973 per consolidare il successo riscosso dal personaggio di Ziggy in Inghilterra e per tentare la conquista degli States. Si tratta di un lavoro eterogeneo, composto proprio durante il tour statunitense di Ziggy Stardust e ispirato a luoghi, ambienti e atmosfere degli Usa.
Non a caso si sentono, in molte tracce, influenze blues e rock and roll “d’annata”, in una sorta di nostalgico omaggio a un’America più immaginaria che reale.
Va però detto anche che ogni volta che si legge una recensione su “Aladdin Sane” ci si imbatte nella stessa frase: “Aladdin Sane è Ziggy Stardust dopo un viaggio in America“.
Anche supponendo che chiunque ascolti Bowie si sia già reso conto di che cantonata si tratti, sarebbe il caso di dedicare due righe alla questione. L’errore è su due livelli: primo, è un disco che contiene anche molta Europa; secondo, di America ce n’era già a vagonate nella musica di Bowie, da ben prima di questo album. L’aneddoto che lega “Life On Mars?” a “My Way” di Frank Sinatra è ben noto, “Song For Bob Dylan” e “Andy Warhol” si spiegano da sé, così come le varie cover di Biff Rose e Ron Davies, la risposta ai Velvets di “Queen Bitch”, il boogie anabolizzato di “Hang on to Yourself”, il doo-wop di “Soul Love”: si potrebbe continuare all’infinito.
“Aladdin Sane” ha dunque solo continuato a interessarsi all’altra sponda dell’oceano, come Bowie aveva sin a quel momento sempre fatto: non si capisce quindi il motivo della fastidiosa precisazione che lo accompagna ormai dai tempi dell’uscita, se non per il fatto che il materiale sia stato elaborato fisicamente negli Stati Uniti, durante il tour di Ziggy.
Inoltre, come poi la storia insegnerà, le mille vite di Bowie lo hanno portato ad essere British, poi appunto americano e, alla fine, anche tedesco, visto che poi la Trilogia berlinese lo porterà dal 1977 a sperimentare sempre e ancora di più.
Tornando ad Aladdin Sane, ci si imbatte nel free jazz, innestato dal pianista Mike Garson, nel gospel, nel doo-wop, nel blues e in rockabilly isterici. Nessuno che sottolinei però mai come lo stile di Garson fosse più vicino all’approdo europeo di quella corrente jazzistica, né la presenza di un brano influenzato da Kurt Weill (“Time”), la decadenza tipicamente europea di “Lady Grinning Soul”, l’approccio vocale sempre più estetizzate e cabarettistico.
Bowie stava semplicemente continuando, né più né meno, la sua commistione fra musica americana e musica europea: del resto creare una musica popolare del tutto europea all’epoca era particolarmente difficile (ci sarebbe poi voluto l’approdo massiccio dell’elettronica per consentirlo).
Per gli inglesi era poi del tutto impossibile: per cinquanta anni, prima che esplodesse il beat, la Gran Bretagna era stata definita ‘la terra senza musica’.
Gli stessi Kinks, coloro che più di tutti diedero una connotazione british e nostalgica di quella musica, lo fecero distorcendo a loro favore alcuni canoni musicali della tradizione americana e innestandovi quel poco che l’avara patria gli aveva offerto (marcette militari, musica da band paesana, qualche carillon e poco altro). La grandezza di “Aladdin Sane” sta semmai nella sua eterogeneità, dato che nessun disco glam-rock fino a quel momento aveva esplorato una simile quantità di territori: di certo non “The Rise and Fall of Ziggy Stardust”, che conteneva in sostanza due blocchi di canzoni (gli inni proto-punk e le ballate).
Qui invece fra suoni saturi sino all’abbandono del controllo (“Watch That Man”, “Cracked Actor”) e stravolgimenti stonesiani a tripla velocità (“Let’s Spend the Night Together”), musica-teatro (“Time”) e struggenti canzoni d’amore (“Lady Grinning Soul”), balli sincopati (“Panic in Detroit”) e blues d’assalto (“The Jean Genie”), divertissement nostalgici (“The Prettiest Star”, “Drive-In Saturday“) e canzoni d’atmosfera che deragliano in code rumoristiche (“Aladdin Sane”), non si sa davvero da quale parte voltarsi.
Disco dunque dall’animo ribollente e schizofrenico, con la chitarra di Mick Ronson mai più così pungente e una produzione miracolosa (Bowie + Ken Scott) capace di mimetizzare spunti fra loro antitetici, “Aladdin Sane” rimane uno dei dischi cardine per concepire l’atteggiamento curioso e contaminatore che avrebbe portato qualcuno a coniare il termine art-rock (sperando che nessuno l’abbia mai inteso come corrente a sé, ovviamente).
La copertina di Aladdin Sane riporta una delle più celebri immagini della carriera di David Bowie: la foto del cantante a torso nudo, con gli occhi chiusi, i capelli fiammeggianti e il volto diviso in due da una saetta rossa e blu mentre una lacrima gli scivola lungo la clavicola. Lo shooting per la copertina era diretto da Celia Philo. Il fotografo Brian Duffy, presentato a David dal manager Tony Defries, credeva che il disegno del fulmine fosse stato ispirato al cantante da un anello appartenuto ad Elvis Presley, ma l’immagine aveva implicazioni più ampie e il trucco opera di Pierre La Roche rappresentava una deliberata espressione della personalità scissa del personaggio.

Lo stesso Bowie ha ammesso che la lacrima fu invece un’idea di Duffy: «Ce l’ha messa in seguito, ho pensato che fosse una cosa piuttosto dolce». Entusiasta del risultato, Defries insistette con la RCA per riprodurre la copertina con un inedito sistema a sette colori, un processo che non era possibile in quel periodo nel Regno Unito e che richiedette l’intervento di un tipografo di Zurigo.
In Italia, al fine di anticipare al massimo l’uscita dell’album la RCA decise di distribuire la prima tiratura con una copertina provvisoria completamente bianca con il nome dell’artista e dell’album. La copertina ufficiale fu distribuita successivamente e a chi aveva acquistato l’album fu permesso di richiederla gratuitamente nei negozi di dischi.