EDITORIALE – Nessuno dei R.E.M. avrebbe mai immaginato che Losing My Religion, pubblicata il 19 Febbraio 1991 e quindi trentaquattro anni fa, potesse diventare ciò che è diventata: vale a dire la canzone simbolo del gruppo, quella che tutti i fan, dai più integralisti ai meno esigenti, aspettavano in concerto.
Non si era mai visto un singolo di cinque minuti con un assolo di mandolino conquistare il mondo. Fu forgiata in prima battuta dal chitarrista Peter Buck, che scrisse il riff e il ritornello.
Da pochi giorni stava imparando a suonare il mandolino, registrando i suoi tentativi. Riascoltandoli si rese conto di quel riff che, lavorandoci sopra, poteva diventare una canzone.
Lo portò in studio, e Mike Mills aggiunse una linea di basso alla John McVie dei Fletwood Mac, mentre il frontman e cantante Michael Stipe lavorava ai testi.

Losing My Religion è un’espressione del sud degli Stati Uniti, che significa “perdere la testa”. Niente a che vedere con la religione anche se, per complicare le cose, il video è pieno di immagini religiose.
Stipe aveva in mente un video tipo quello di Sinead O’Connor in Nothing Compares 2 You, cioè in primo piano sul volto. Il regista Tarsem Singh pensava invece a qualcosa di più melodrammatico, ma quando vide Stipe ballare in quel modo assurdo, decise che la cosa migliore sarebbe stata tentare un “miscuglio” di tutte le idee, compresa quella di ispirarsi parzialmente a un racconto di Gabriel Garcia Marquez, A Very Old Man with Enormous Wings, (Un Uomo molto vecchio con ali enormi).
Il brano è colonna portante dell’album Out Of Time, settimo disco della band pubblicato il 12 marzo di 34 anni fa, grazie al quale arrivarono al successo planetario.
L’immagine della band agli albori degli anni novanta, è quella di un collettivo organizzato e maturo musicalmente: la bilancia dei generi pende soprattutto sul country-folk, impreziosito da arrangiamenti orchestrali e venature rock, il tutto sviluppato con la tipica attitudine R.E.M. , ovvero con quella gradevolezza e meraviglia che solo le cose semplici possono avere. Premesse che non lascerebbero certo presagire un hit album; e invece il disco fece il botto, grazie alla sopra citata Losing my religion.
In tutto il disco prevale un mood sereno e luminoso; il brano d’apertura è la divertente Radio song, che con una ritmica contagiosa e Stipe che si accanisce contro una stazione radio che non gli piace, riesce anche ad essere ballabile. Sensazione che non si ripete in seguito, dove la compattezza lascia lo spazio a un paesaggio sonoro evocativo e limpido, con i quattro che propongono un angelico incrocio tra i cori dei Beach Boys e la migliore tradizione folk.
Da qui si aprono le due quasi-strumentali Endgame e Belong, paradisi musicali deliziosamente rallentati, sostenuti dal basso ritmico di Mike Mills mentre le chitarre disegnano dolci carezze su cui salgono cori armonici da far invidia ai Fleet Foxes.
Stesso discorso per Half a world away, ancor più adagiata senza percussioni e con un organo che fa da contraltare alle chitarre agresti. Altrove invece la band accellera i ritmi e le suggestioni si uniscono alla velocità rock, evitando così che il disco si adagi eccessivamente.
Con esiti diversi, però: nei due brani cantati da Mike Mills, Near wild heaven e Texarkana, siamo ancora dalle parti di un’evocatività artigianale e fragrante, mentre quando il microfono torna a Michael Stipe la musica si fa più muscolare e comunicativa, insomma più diretta ma altrettanto espressiva.
Come in Shiny happy people (anche questo singolo di successo) che, pur non rinunciando agli intermezzi orchestrali che si inseriscono per due volte nella canzone, ha tutte le caratteristiche della buona rock song, impreziosita dalla presenza vocale di Catherine Elizabeth “Kate” Pierson
Così il disco scorre via in uno splendido equilibrio, che allo stesso tempo calma, estasia e diverte i sensi.
Con in più la presenza di due perle: Low, che emerge dal disco per la sua atmosfera cupa e si dipana tra un organo ossessivo e le discrete percussioni dalle movenze tribali, con il cantato fosco di Stipe che a tratti rasenta lo spoken word; e Country feedback, bellissima e struggente ballata con le chitarre malinconiche e appena effettate a rafforzare la voce, quasi dolorosa quando sale cantando “It’s crazy what you couldn’t have / I need this” (tradotto liberamente, “è da pazzi se pensi a ciò che non hai potuto avere / eppure non posso farne a meno”).
Tutto meraviglioso e cristallino, magicamente fuori dal tempo. Out of time, appunto.