EDITORIALE – 1970: mai San Valentino fu così rock, con gli Who in rotta per la stratosfera. Con i Beatles all’epilogo della carriera, i Rolling Stones privi di Brian Jones (morto nel 1969) e i gruppi hard rock/ proto-metal ancora nelle fasi embrionali dei rispettivi percorsi, gli anni a cavallo tra Sessanta e Settanta diventano il vero e proprio periodo d’oro della band londinese.
Da parte loro, gli Who non ne sbagliano una: dopo il fenomenale Live at Monterey del 1967, Woodstock li consacra definitivamente anche negli Stati Uniti; Tommy ha un successo incredibile e il suo seguito Who’s Next (1971) sarà un altro disco storico. Ciò che rende gli Who qualcosa di mai visto prima nell’universo del rock duro è la capacità di conciliare album in studio dotati di grande spessore tematico-intellettuale con performances live furibonde e irripetibili (anche perché contraddistinte da un alto tasso d’imprevedibilità).
Il 1970 è l’anno di una doppietta leggendaria: gli Who, all’interno del tour promozionale di Tommy, si esibiscono prima presso l’università di Leeds, poi in agosto suonano al Festival dell’Isola di Wight (davanti a 600.000 persone). Il Live at Leeds viene commercializzato nel maggio del 1970 (in una prima versione più ristretta, contenente solo sette brani) ed è lo showcase definitivo delle debordanti possibilità performative del quartetto londinese: sin dalla sua uscita, il disco viene considerato da buona parte della critica uno dei migliori live in assoluto della storia del rock (non sono in pochi a ritenerlo addirittura il miglior live album di tutti i tempi).
Gli Who del Live at Leeds sono semplicemente la più devastante macchina da guerra rock mai riunitasi su di un palco. I quattro membri della band sono al top della forma e della convinzione nei propri mezzi (all’epoca le età dei componenti del gruppo oscillavano tra i ventidue anni di Keith Moon e i ventisei di Roger Daltrey e John Entwistle) e l’alchimia sonora risultante è nientemeno che perfetta. Daltrey è un vero e proprio sciamano, in grado di passare dal canto sussurrato alle grida belluine in un lampo, Townshend è la solita inarrestabile macchina da riff acidi e martellanti, Entwistle e Moon si candidano con forza, già in questa occasione, a miglior sezione ritmica della storia del rock, tanto per originalità, quanto per potenza sonora sprigionata.
Per quanto compete la mia conoscenza del disco, la versione del Live at Leeds di cui ci occuperemo è quella uscita nel 1995, che non comprende la riproposizione semi-integrale di Tommy edita per il quarantennale nel 2010 e contenente anche il Live at Hull.
Il disco (e il concerto) attacca con l’elettrizzante Heaven and Hell, uno dei massimi contributi compositivi apportati da John Entwistle al catalogo della band. Il brano è una delle storiche aperture live degli Who, utilizzata spessissimo durante il tour di Tommy, perché perfetta (con la sua struttura non particolarmente complessa, le parti cantate all’unisono, il forsennato assolo di Pete Townshend e la grande energia richiesta alla sezione ritmica) per scaldare l’atmosfera e per fare entrare i quattro rockers nel mood psicofisico migliore.
Il “riscaldamento” prosegue con il manifesto degli Who prima maniera: la trascinante I Can’t Explain, singolo d’esordio del quartetto. Le versione live è decisamente più robusta di quella studio e dimostra come gli Who siano stati in grado, in pochi anni, di limare corposamente le suggestioni apportate al loro sound da band come Beatles e Kinks. Una particolare nota di merito per la performance di Keith Moon: il suo drumming tribale è il vero valore aggiunto di questa canzone.
Fortune Teller è la prima cover del disco (la versione originale è di Benny Spellman). Gli Who ne mantengono il piglio R&B, stravolgendo però tutto il resto. Il risultato è un brano efficace, che con la successiva Tattoo fornisce già un sostanzioso esempio della poliedricità vocale dell’incredibile Roger Daltrey. Per quanto l’imprescindibile apporto compositivo di Townshend e l’incessante macchina bellica costituita dal duo Entwistle–Moon siano il vero motore del sound degli Who, sono proprio l’inimitabile timbro e l’eccellente capacità interpretativa del boccoluto (allora) singer a costituire la proverbiale ciliegina sulla torta, soprattutto in sede live. Qualsiasi cosa si provi a far cantare a Daltrey, dal metal al country, con ogni probabilità questi riuscirebbe a “whoizzarla” in modo irreversibile.
Con il brano successivo Young Man Blues ci spostiamo proprio al confine con il proto-metal. Avete presente quando si dice che il metal è diretto discendente del blues? L’infuocata cover di questo pezzo di Mose Allison (ulteriormente ispessita rispetto ad altre occasioni) ne è la conferma definitiva. Gli Who spingono sull’acceleratore con grande foga: Townshend sull’improvvisazione di stampo blues come sempre dà il suo meglio e Daltrey si lancia in una perfetta imitazione del suo erede designato Robert Plant.
Substitute è un manifesto della band (uno dei brani in assoluto più riproposti dal vivo) e, a quanto pare, un più o meno velato sfogo di Townshend, che tacciava l’ambiente musicale di metà anni ’60 di vedere gli Who come semplici “sostituti” dei Rolling Stones (per quanto in effetti gli Who avessero appreso molto dalla band di Keith Richards). La canzone, pubblicata come singolo nel 1966, è uno dei primi esempi della transizione tematico-musicale che porterà gli Who a comporre i capolavori del periodo maturo. La versione del Live at Leeds, per quanto ottima, è però accorciata rispetto all’originale.
Il brano si allaccia direttamente a Happy Jack, un’altra traccia estremamente rappresentativa del periodo che vede gli Who alla ricerca di se stessi (gli incroci vocali divengono già qui un vero e proprio strumento espressivo, da quasi vezzo che erano in I Can’t Explain).
I’m a Boy, uscita nel 1966 come le due canzoni precedenti, è un altro significativo tassello che porterà poi la band fino al puzzle completo che saranno le due rock opera Tommy e Quadrophenia (1973). Si tratta infatti di uno dei brani scritti originariamente per far parte di Quads, una mini-opera a sfondo distopico ambientata in un futuro in cui i genitori hanno la facoltà di stabilire il sesso dei figli. Pete Townshend, in questa versione live, la introduce con un classico esempio dell’aspro umorismo della band: ”I’m a Boy, secondo Melody Maker, è stata la nostra prima canzone al numero uno in Inghilterra; per circa mezz’ora, credo”.
Il periodo di sperimentazione pre-Tommy è rappresentato anche da A Quick One, While He’s Away, a pieno titolo uno dei primi brani progressive rock della storia. La canzone è particolarmente complessa per l’epoca in cui è stata composta, con la sua suddivisione in sei movimenti e la vena “operistica” da cui è attraversata (è proprio con questi brani che i membri della band iniziano a suddividersi le parti cantate in base alla trama sottesa alle lyrics, come poi faranno anche in Tommy). Impeccabile, piena di pathos e di anima questa versione dal vivo, considerando anche la difficoltà intrinseca di trasporre un brano del genere in sede live.
Il discorso prosegue con due brani estratti da Tommy (che già sul disco in questione formavano una doppietta): Amazing Journey e Sparks. Impossibile non notare come il sound sia, ovviamente di proposito, decisamente sporcato rispetto alle rispettive versioni studio (e ci mancherebbe); l’occasione è eccellente per lasciar sfogare il buon Keith Moon, che prova in tutti i modi a sfondare la batteria con le sue incessanti randellate.
Arriviamo a uno degli assoluti apici del Live at Leeds: Summertime Blues. Il brano di Eddie Cochran, coverizzato anche dagli alfieri del proto-metal Blue Cheer, nelle mani degli Who diventa un puro concentrato di energia grezza. Semplicemente spettacolari gli ingressi vocali in “proto-growl” di John Entwistle e il palpitante assolo di Pete Townshend. Tanta è l’energia sprigionata che il brano, da semplice traccia audio, riesce ad acquisire anche una vera e propria dimensione visiva: impossibile non visualizzare Daltrey intento a scuotere il microfono come un ossesso e Townshend impegnato nelle sue power moves da battaglia (con Entwistle come sempre tanto moscio nel contatto col pubblico quanto furente nel contatto col basso).
Con Shakin’ All Over, uno dei brani più coverizzati degli anni ’60, s’inizia a stendere il tappeto per il gran finale. A dirla tutta, questo pezzo sembra leggermente più fuori dalle corde degli Who rispetto ad altri, ma è impossibile muovere un solo appunto all’infuocata versione proposta dalla band in questa sede.
Eccoci giunti a My Generation. Che dire di questa canzone, se non che ha dato un significato tutto nuovo all’espressione “inno generazionale”? In realtà, più che una versione di My Generation, quella del Live at Leeds è una sorta di medley trasversale dell’evoluzione della carriera degli Who fino a quel momento. Largo spazio all’improvvisazione e alla foga espressiva dei quattro musicisti, che sfociano in un magma sonoro di quasi quindici minuti di durata, da cui affiorano brandelli di canzoni passate, presenti e future. Va un po’ persa la dimensione sacrale posseduta dalla versione originale, ma se ne acquisisce un’altra quasi da happening ginsbergiano. Non siamo davanti a un semplice brano musicale, bensì a un modo di intendere il mondo, il genere umano e il rock and roll.
La chiusura del disco è affidata a un altro simbolo in note come Magic Bus, che fornisce agli Who l’ennesima occasione per inscenare una strabordante jam session. Per chiudere la recensione di quello che è senza dubbio uno dei pilastri su cui ha poggiato tutta la musica rock prodotta nell’ultima quarantennio, non possiamo fare a meno che affidarci alle parole del geniale Pete Townshend: Da un certo punto di vista, il dio in cui crediamo per quieto vivere è un dio leggermente diverso rispetto a quello che gettiamo nella mischia quando andiamo a un concerto rock. Una cosa che posso dire con assoluta convinzione è che io venero il secondo dei due.
Non stupisce che a 53 anni di distanza da questo leggendario live, Townshend e Daltrey, a quasi ottant’anni, hanno dato il meglio di loro stessi sul palco del Firenze Rocks lo scorso 17 giugno 2023 con un lungo show con orchestra. Non è stato un ritrovo di vecchi nostalgici, ma un’occasione per i più giovani di vivere un pezzo di storia della musica e per dire ancora una volta che si, Gli Who sono ancora la miglior live band rock del mondo!!