EDITORIALE – Ineffabile Mr. Jones: credeva che farsi crescere un paio di baffi, vestirsi come un immigrato turco e andare in giro in bici per Berlino Ovest gli avrebbe consentito di mantenere quel basso profilo (low profile è proprio il rebus che si legge in copertina, con lo scatto di scena da L’uomo che cadde sulla terra a mo’ di sberleffo auto celebrativo/commiserativo) che gli serviva per realizzare l’album sperimentale che aveva in mente da un po’.
Ma lui era comunque David Bowie e, per quanto cercasse di dissimularsi per l’ennesima volta, una sua mossa – anche se di quel tipo, o meglio specie se di quel tipo – non poteva certo passare inosservata.
Al punto che, col beneficio di quarantaquattro anni di distanza (ma lo potevano dire anche i contemporanei: chiedetelo a Siouxsie Sioux, John Foxx, Gary Numan e qualche altro centinaio di artisti), possiamo dire senza tema di smentita che nella storia della musica popolare del Novecento c’è un prima e un dopo Low.

L’album viene registrato nell’autunno del 1976 al Chateau d’Herouville in Francia (in cui Bowie ha da poco terminato “The Idiot” con Iggy Pop) e successivamente mixato agli Hansa Studios di Berlino, dove viene pubblicato il 14 gennaio del 1977.
Se si pensa che anche “Lodger” del 1979 non è stato registrato nella capitale tedesca, il concetto di “trilogia berlinese” assume un significato diverso, non prettamente geografico, per cui Berlino è piuttosto un topos dove Bowie è riuscito a confrontarsi con se stesso e trovare nuova linfa vitale e artistica.
Altra precisazione va fatta riguardo un elemento da molti considerato (forse troppo generosamente) chiave per l’importanza storica assunta dai dischi della trilogia, ovvero la collaborazione di Brian Eno come musicista (e non produttore, come molti a torto ritengono).
Strutturalmente in Low c’è una netta divisione tra le due facciate del disco (operazione ripetuta nel successivo “Heroes”): una più “pop” e votata alla forma canzone, l’altra principalmente strumentale e dilatata.

Originariamente il long-playing avrebbe dovuto chiamarsi “New Music: Night and Day”, ricalcando questa divisione in due parti; la scelta del titolo poi cadde su “Low” per il duplice significato sia di “depressione”, sia per quello che viene fuori associando la parola alla foto di copertina: “Low profile”, basso profilo (che era quello, come suddetto, che Bowie intendeva mostrare al pubblico dopo anni di eccessi anche mediatici).
Nella prima parte dell’album le algide atmosfere del kraut si fondono alla passionalità del rhythm and blues (grazie alla consolidata sezione ritmica Alomar-Murray-Davies): “Speed of Life” suona ancora oggi futuristica (Bowie qui è ai synth), “Breaking Glass” è un funk minaccioso e robotico, “What in the World” ha nel suo ritmo un’urgenza espressiva incontenibile, “Sound and Vision” è disco glaciale, con la sua cascata di sintetizzatori e il ritmo costante della batteria trattata; “Always Crashing in the Same Car” è un folk dylaniano trasfigurato elettronicamente, in cui fa da padrona la fantastica chitarra filtrata di Ricky Gardener, futuro alfiere di Iggy Pop (piccola curiosità: la prima scelta per il chitarrista di “Low” era stata Michael Dinger dei Neu!, che però declinò gentilmente l’offerta), mentre in “Be My Wife” viene fuori il chitarrismo istintivo e rabbioso di Bowie, che scorre nervoso su un tappeto di tastiere.
Chiude la facciata “A New Career in a New Town”, strumentale che è manifesto del nuovo corso musicale intrapreso, conciliando tradizione (il semplice motivo di armonica in lontananza) e innovazione (i suoni “freddi” delle macchine).
Le liriche sono uno specchio del travaglio di Bowie: rassegnazione ai limiti dell’apatia (“Always Crashing”), ricordi di una vita domestica turbolenta (“Breaking Glass”), forte bisogno di un sostegno (“Be My Wife”), consapevolezza del difficile percorso intrapreso (“Blue blue electric blue / that’s the color of my room / where I will live”, “Sound and vision”).
La seconda parte dell’album ha la colonna portante negli oltre sei minuti di “Warszava”, vetta espressiva dell’intero lavoro ed emblematico risultato della perfetta sinergia Bowie-Eno.
Il suono ambientale, asettico per definizione, si colora di suggestioni etniche grazie alla voce (trattata con l’Harmonizer) che si libera in un canto senza parole, composto di suoni che rievocano le lingue e le modulazioni balcaniche.
È il superamento dell’ambient music: la world music (che verrà approfondita in “Lodger”) è dietro l’angolo.
“Art Decade” e “Weeping Wall” (quest’ultima risalente alla già citata colonna sonora abortita di “The Man Who Fell to Earth”) ricordano certi episodi di “Another Green World”, filtrati però dalla sensibilità bowiana: il risultato è così molto più tormentato rispetto al lavoro di Eno.
Chiude il disco “Subterraneans”, che nella cupezza dei suoni e nella desolata linea di sax esprime perfettamente l’atmosfera della Berlino Est post divisione, dove “ci furono solo i sassofoni jazz a rappresentare il ricordo di ciò che fu” (dalle parole dello stesso Bowie).
“Low” è un disco che ha aperto moltissime porte allo sviluppo del rock: gli anni 80 e la new wave tutta senza questo disco non sarebbero di sicuro stati gli stessi. Bowie riesce a fondere in maniera assolutamente originale cultura europea (kraut-rock, esistenzialismo), cultura afro-americana (rhythm ‘n’ blues) arrivando all’abbattimento definitivo delle barriere transculturali e realizzando al contempo uno dei suoi dischi più veri e profondi.
Difficilmente la musica “pop” (nell’accezione più ampia del termine) toccherà livelli così alti di ispirazione e sperimentazione.