EDITORIALE – Bowie traslocò temporaneamente in quel di Berlino Ovest ricorrendo al “non musicista” Brian Eno per assecondare una perenne voglia di cambiamento e consegnare l’ennesima tra le sue camaleontiche mutazioni.
Senza dubbio quella più fulgida dal punto di vista artistico e in prospettiva la più influente, che lo racconta in grado di inventare un futuro aldilà del punk già nel 1977 dopo averne poste le fondamenta estetiche all’epoca del glam.
David Bowie arrivava da un periodo non felice, costellato di dipendenze dalla droga e deliri assortiti, superati aiutando l’amico Iggy Pop e se stesso a rinsavire con gli eccellenti The Idiot e Lust For Life.
Lavori che in un certo senso possiamo considerare introduzioni di rango, qualora non vere e proprie prove generali, per la svolta di cui parlavamo sopra, un’infatuazione per il rock “made in Germany” o krautrock, (termine coniato dalla stampa e critica angloamericana in riferimento alla scena musicale costituita dai gruppi attivi in Germania negli anni settanta), di Neu!, Kraftwerk e Can trasformata in realtà nella leggendaria “trilogia berlinese”.
Tra l’imprescindibile Low e le venature etniche di Lodger, spicca nell’esatto mezzo Heroes, pubblicato il 14 ottobre del 1977 diviso come il predecessore in una prima facciata di canzoni e una seconda, invece, consacrata a strumentali di sentori ambientali. Stavolta, però, allestiti affidandosi a Cluster e ai primi Tangerine Dream e chiudendo i giochi con un brano cantato, l’auto esplicativa ed ipnotica The Secret Life Of Arabia.
La title track Heroes è la canzone più famosa della trilogia. Proprio per essere stata concepita nel 1977 nella Berlino spezzata in due, per molti anni si è pensato che il verso “standing by the wall” si riferisse al muro di Berlino, cosa in realtà non vera. Anche il significato della canzone non è mai stato percepito nella sua completezza. Bowie aveva in mente di raccontare la vita difficile di due emarginati, di un alcolizzato e di una compagna con molti problemi; la parabola d’amore di due sconfitti che, tenuti in disparte dal mondo, possono vendicarsi e diventare eroi “anche solo per un giorno”… (We can be heroes just for one day).
Nel modo in cui era originariamente concepita la canzone, la storia era dunque quella di due persone che volevano ottenere dei risultati importanti all’interno della loro relazione, non nel mondo intero, ma su una scala ridotta a due.
Come talvolta accade quando si è in presenza di un successo imponente, la canzone ha subìto uno slittamento di significato abbracciando il sociale, complici anche le interpretazioni che Bowie ha dato in occasioni importanti come il 1985: quando nel corso del Live Aid si fece accompagnare da Thomas Dolby alle tastiere, o nel 1992, al Freddie Mercury Tribute Concert con i Queen. Ma anche nel 1996 al The Bridge Benefit Concert e nel 2001 al Concert for the New York City, svoltosi dopo l’attentato alle Torri Gemelle.
Anche se nella mia mente e in quella di molti, rimarranno sempre impresse le immagini di Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, il film tratto dal libro di Cristiane F., con Bowie, il vero Bowie in carne e celluloide , che canta Heroes, ispirato come non mai.
Ma Heroes è un album scrigno non solo per i suoi significati, per il contesto in cui viene composto o per il carisma di David Bowie, ma anche perché, come già scritto, è un crocevia di ispirazioni e artisti attorno a cui ruotano storie e duttilità musicali. Ci sono ospiti del calibro di Robert Fripp, il quale registra le parti chitarristiche al primo colpo distillando metafisico post blues: altrimenti, un omonimo capolavoro di bran bastante a garantire l’immortalità, la Beauty and The Beast che inventa gli LCD Soundsystem e una struggente Sons Of The Silent Age che fa lo stesso con gli Ultravox.
Il disco è diviso volutamente in due parti e nella prima, anche se troviamo una struttura più convenzionale, la composizione della canzone lascia intravedere dei cambiamenti e non sembra più quella che conosciamo, quella a cui siamo abituati. Nel primo brano Beauty and the Beast la voce di Bowie è inconfondibile, solo un po’roca, più profonda. Il ritornello sembra grazioso, ma il ritmo è intenso, grave.
Poi in Sons of the Silent Age, si intravede il lavoro che ascolteremo quando il disco andrà sul lato b: un’ambientazione creata dal sassofono ci fa intravedere un ambiente buio, insicuro, vuoto, da cui provengono i figli dell’epoca del silenzio, epoca in cui anche il silenzio nel ritornello è considerato un suono “sons of sound and sons of sound”.
Blackout e la stratosferica chitarra di Fripp, chiudono il primo lato in maniera rocckeggiante. Il ritmo cambia ma la voce di Bowie è però, invece, atonale, sia che sia bassa che più acuta. I versi apparentemente disgiunti l’uno dall’altro, sono scritti probabilmente solo per ricercare il canto perfetto, accompagnano la musica a prescindere dal significato. Le sonorità innovative sono un preludio di quelle che ascolteremo di qui a pochi mesi, con l’avvento e il dilagare della new wave.
La seconda facciata dell’album ci riserva non poche sorprese: è quasi completamente strumentale. Il disco di Bowie diventa un disco di Bowie-Eno, in quanto le tastiere ed il sintetizzatore di Brian prendono il posto della strumentazione. V2 Schneider che apre il lato “B” è ispirata dai Kraftwerk.
Tutto l’album, invero, è fortemente influenzato dalla corrente elettronica/tedesca di quel periodo.
Eno a cui sono affidate le tastiere e naturalmente il sintetizzatore, in questo disco musicista anziché produttore, con la sua genialità è allo stesso tempo influenza ed ispirazione della struttura dei brani nonché della musica stessa.
Sense of Doubt è grandioso, il più significativo dell’intero album insieme alla successiva Neukoln. Nell’analisi del subconscio c’è oscurità, imperscrutabilità, paura per l’incertezza delle scelte non ancora definite, l’angoscia che da esse ne deriva. Neukoln è decadente, l’uomo cercando nella sua coscienza stavolta non rimane completamente disilluso, riesce a vedere uno spiraglio di luce (il sax di Bowie) e c’è ancora speranza. L’atmosfera è rarefatta e allo stesso tempo cupa, l’orizzonte è all’infinito, ma c’è qualcosa che gli da fiducia, che gli fa credere che ci sia una via di uscita, finalmente, forse, visto che il brano termina con le note del sassofono che suona estenuato dalla ricerca, dai vani tentativi di espiazione.
Se anche ciò che si cerca non è stato ancora trovato, ora siamo sicuri che c’è una possibilità, ci sarà anche la forza per poterne prendere atto e la consapevolezza, quindi, per poter agire-reagire. David, accompagnato e protetto da Brian, riesce cantando The Secret Life of Arabia a conseguire il suo percorso interiore, a lasciarsi alle spalle un passato da cui ne esce guarito, rinato attraverso quest’esperienza nuova e completamente stupefacente. E’ il disco del riscatto, la giusta ripartenza dell’artista che si era impantanato nelle droghe e nell’accidia del successo. L’autore, inoltre, cantando l’ultimo brano chiude il disco a suo modo, e cantando se lo riprende comunicando al mondo intero ciò che è stato capace di realizzare, nonostante la diversità del lavoro conseguito rispetto solo a quello di qualche anno prima. Quest’ultimo brano è, inoltre, da intendersi come un anello di congiunzione con il successivo Lodger e con la sua musica che verrà.
Heroes copre una vasta gamma dei sentimenti umani: si va dalla spirale verso l’alto di V2 Schneider alla disperazione più profonda di Sense of Doubt, alla decadente Neukoln (quartiere decadente, appunto, di Berlino). Questo disco è ricercato e cercato, voluto così per rompere con il passato, per dimostrare che l’uomo-artista è tale a prescindere dalle vendite, e che i dischi poco commerciali non significa che non possano essere ispirati. L’album nonostante ciò, venderà tantissimo e piacerà a tutti, anche ai vecchi fans di Bowie. Una vittoria per loro espressa attraverso le parole di Eno che ci dirà “…non è detto che noi musicisti non si abbia il potere di imporre ai mass-media nuovi gusti, nuovi dettami stilistici. L’esempio di David è illuminante…”. I germogli della new wave sono stati piantati, la sperimentazione sonora di Eno e di Bowie, di cui il primo si serve magnificamente per la sua voce, trova risultati stupefacenti. I due riescono ad ottenere attraverso l’uso combinato delle loro migliori caratteristiche, degli strumenti e delle loro esperienze ed abilità compositive, una perfetta manipolazione del suono ed a plasmare atmosfere degne di uno dei migliori album di musica ambient. Il risultato è un disco epocale, un manifesto di pop elettronico, utopistico senza il talento creativo di Eno, improbabile senza la voce di Bowie.
Per Bowie giungeranno da qui in poi i lustrini rivisitati new wave di Scary Monsters e la svolta “edonista” di Let’s Dance, i cali ispirativi e un graduale allontanarsi dal centro pulsante del rock. Quello stesso occupato qui saldamente, con il piglio del genio carismatico e visionario.