#TellMeRock, 17 Febbraio 1975: A cinquant’anni dall’esordio ad ‘Alta tensione’ degli Ac/Dc

EDITORIALE – Gli esordi…quelli belli ma soprattutto decisivi. Chi lo doveva dire che la lontana Australia doveva risollevare le sorti di un hard rock che dopo le esplosioni firmate Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath, stava per essere sostituito e messo ai margini da punk e disco dance?

Per fortuna un gruppo di ragazzotti, membri di un gruppo chiamato Ac/Dc, con il loro primo lavoro, riuscirono nell’obiettivo di ridare potenza e vigore al genere hard rock.

Era il 17 febbraio del 1975, e la band australiana suonava e pubblicava in madre patria alcuni brani in anteprima del loro disco di esordio dal titolo High Voltage, pubblicato poi in Europa e USA il 30 aprile 1976.

Un lavoro in definitiva grezzo, elementare, ma anche maledettamente potente e irripetibile che spalancò con un violento e deciso calcio le porte del successo agli australiani in tutto il globo.

Ormai anche la sabbia del deserto sa delle due versioni editate con questo titolo, una australiana, il vero debutto della famiglia Young and company, e una sorta di riedizione mondiale che manterrà solo due pezzi dell’originale platter (She’s Got Balls Little Lover) con una predominanza di tracks estratte dal successivo T.N.T. 

Oggi parleremo della prima versione originale, quella registrata in soli dieci giorni nella terra dei kangaroo, presso gli Albert Studios di Sydney, prodotta da Harry Vanda e George Young, stampata dall’etichetta Albert Productions con una copertina che, perlomeno, sa di fumetto.

Il titolo e l’artwork vennero concepiti dalla mente di Chris Gilbey, elemento in quota alla stessa etichetta. Un vero e proprio esperimento, un tentativo, da parte della label, di concedere alla band una chance, poi sfruttata alla grande dai nostri eroi. 

High Voltage quasi inaspettatamente, si ritrova fin da subito al gradino numero 7 della classifica australiana, il che consente alla band di apparire più volte nel programma musicale, di grande seguito, Australia’s Countdown; in questo contenitore si tenne l’ormai epica live performance di Baby, Please Don’t Go con un Bon Scott vestito da scolaretta bionda.

Episodi che si sono persi nei meandri della storia degli AC/DC, quando poi gli australiani diventeranno una tra le più fulgide stelle dell’hard rock mondiale e un punto di riferimento e di emulazione per un’infinita serie di band. Il disco parte con un riff eccitante e insistito di Angus Young sul quale si basa tutta l’opener, mentre la voce alcolica e rauca di Bon Scott segna le coordinate, sezione ritmica indiavolata: ecco gli AC/DC signori, non se ne andranno più e bolleranno la vostra mente malata di metallo liquido, nei decenni a venire, scriverà poi un critico musicale inglese nella maetà degli anni ’70.

L’assolo di Young dà la spinta ulteriore e ricalca le scale che poi si evolveranno in pane quotidiano della band, con la voce di Scott che, purtroppo e senza nulla togliere a Brian Johnson,mancherà non poco.

Chiaro che il sound è poco brillante, talvolta velato, le dinamiche problematiche e la registrazione non propriamente eccellente, ma dai solchi si sprigionano energia, groove e capacità mirabolanti.

 She’s Got Balls sfoggia una chitarra ipnotica al limite della paranoia, coralità avvincenti, voce cartavetrosa e una linearità tanto semplice quanto dannatamente coinvolgente, così come l’assolo del lungocrinito scricciolo Angus. Lei ha le palle, così il titolo letterario, a mio modesto avviso è un convincente e carismatico manifesto femminista.

Bon Scott raccontò a proposito del brano: “«Ero sposato quando entrai nel gruppo e mia moglie disse: “Perché non scrivi una canzone su di me?” Così io scrissi “She’s got balls”. E lei chiese il divorzio.»

Little Lover è un blues elettrico un po’ al rallenty, quasi scanzonato. Stick Around, invece, è l’abbrivio di tante altre song che fuoriusciranno dalle penne compositive di questa masnada di pionieri del nuovo hard rock. Riff diretto, mini solo in apertura che mostra il già immenso feeling, poi Bon Scott ci spara sopra un singing indolente e convincente che sa di birra e whisky, anche se il chorus non brilla per immediatezza.

Soul Stripper risulta più ariosa con accordi aperti mentre batteria e basso viaggiano all’unisono, tempestando il sentiero erboso di cemento armato, la sei corde svisa liberamente e la voce entra in circolo dopo ben due minuti, una sorta di mini suite che pone sugli scudi un ritornello ben congeniato che investe Bon Scott dell’importanza che ha sempre avuto: ammaestratore dei cocci taglienti vomitati dalle chitarre dei fratelli Young.

Assolo superbo, da parte dello sconsiderato Angus, in uno dei frammenti più lunghi della band, quasi 6 minuti e mezzo di playing.

 You Ain’t Got a Hold on Me procede fiera e baldanzosa asserragliata in un flavour molto “english made”, all’insegna del mid tempo pestato che li renderà unici nel tempo.

Love Song, scritta dai fratelli Young e da Bon Scott, invece, è una canzone davvero strana, una sorta di mix tra una ballad e una song tipicamente elettrica con la chitarra che parte per la tangente fino a quando non viene domata da ritmi lenti e dalla voce dolciastra di un cantante che si cimenta anche su note strappacuore. Sono gli Ac/Dc che provano un timido tentativo di diventare romantici, un pezzo non molto conosciuto o finito negli annali della band ma che merita di essere ascoltato proprio per vagare con la mente e immaginare la band australiana con chitarre e mazzi di rose rosse.

Il risultato non è malvagio ma si intravede, nettamente, come il combo sia più consono a spingere sul pedale del gas piuttosto che a trattenersi, sviluppando melodie più morbide.

Show Business mette fine a questo disco di debutto con uno dei classici tempi boogie spezzati, quelli che caricano l’animo e la follia dei fan, dando sfoggio di una soluzione spesso usata dalla band nei primi anni: chitarra che si sente fin dentro alle ossa, mentre Bon Scott pasteggia a pinte di birra sfoggiando il petto nudo e ammiccando alle gnocche in prima fila. Hey baby, dopo vieni con me!!!. L’intro di batteria richiama molto la Black Night dei Deep Purple

Arriva poi un brano che è annoverato tra i più noti della band ed uno dei più suonati dagli AC/DC in concerto. Durante T. N.T., tranne i versi e l’assolo, Mark Evans e Malcolm Young, in coro, mimano un suono che si può sentire come un rauco “ohi”, di cui non è mai stato spiegato il significato da nessun membro della band. Della canzone è stato fatto un video nel quale la band suona in concerto nel quale spesso dal pavimento escono vampate di fumo alternate con momenti confusi nel quale si vede qualcosa esplodere nel cielo.

A fare gli onori di casa, ad introdurci nel disco nella sua versione internazionale, ci pensa un riff ipnotico del folletto Angus Young sul quale si basa tutta l’opener, It’s just long way to the top, potente e incalzante ballad dotata persino di cornamuse che, incredibilmente, non stonano ma arricchiscono il pezzo. Proverbiale la sua apparizione anche nel film con Jack Black School Of Rock

E’ un lavoro pioneristico, efficace, diretto e vivo. L’alba degli Ac/Dc e il futuro dell’hard rock. Un “Voltaggio molto alto” che segnerà non solo la stessa band, ma l’intero panorama rock negli anni a venire.

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