EDITORIALE – Volete del sano hard rock, senza fronzoli, sentimentalismo o ricercatezze? Bene, Dirty Deeds Done Dirt Cheap degli AC/DC, pubblicato il 18 dicembre del 1976, è ciò che fa per voi.
Perchè è un album grezzo, solare e molto schietto nel suo insieme, pieno di vitalità, che dimostra la freschezza di idee con montagne di riff di granitico rock’n’roll. Ignora per propria volontà le mode musicali del momento, producendo semplicemente una manciata di brani di buon hard rock, che tra cascate di scariche elettriche riescono a mettere in evidenza una sofferta ballad come Ride On, o canzoni come la title track che apre l’album.
Disimpegnati, per quanto con personalità, i brani dell’album vivono di singoli momenti ed andamenti indisturbati, di espressioni ripetute fino a conquistare una forzata ed esasperante familiarità (Love at First Feel), di sonorità dalle radici aborigene e prettamente maschili (Dirty Deeds Done Dirt Cheap).
Poi si arriva nel racconto ubriaco ad evidente doppio senso di Big Balls, così come nel rock’n’roll semplice di Rocker e There’s Gonna Be Some Rockin’ tracce che non avrebbero sfigurato in una puntata di Happy Days (le cui riprese erano cominciate appena due anni prima), c’è una teatralità di gusto grossolano, superficiale e sottilmente irriverente, nella quale la musica è ricondotta ad un ruolo di semplice accompagnamento.
Quasi a volersi immedesimare nello stereotipo che vedeva negli australiani gente rozza e volgare, così come nell’immediatezza noncurante ed originale del suo incedere, nel disco si avverte una spensieratezza oggi rara, una libertà compositiva pericolosa perché apparentemente fuori controllo, sospesa su una miscela di blues punk ed hard rock (Ain’t No Fun) difficilmente capace di risultati raffinati, ma che nel tempo contribuirà a caratterizzare fortemente il lavoro dei cinque australiani, quando graziata dalla giusta sintesi.
Problem Child costituisce sotto questo aspetto uno dei momenti più felici, suonando come la canzone che gli AC/DC potrebbero pubblicare oggi -con Brian Johnson alla voce- senza apparire vecchi, ed ottenendo riscontri attuali e positivi. Batteria in mid-tempo, semplici giri di chitarra variamente declinati da Malcolm Young e l’assolo tecnico del fratello Angus (strepitoso e stilisticamente vario soprattutto nella conclusiva Squealer) sono quello che la band formatasi a Sydney ha sempre dimostrato di sapere e volere fare meglio, forse rinunciando ad evolvere il proprio suono verso direzioni improbabili e snaturanti, verso costruzioni più stilisticamente elaborate, in nome di una coerenza assoluta che li ha portati ad essere uno dei gruppi di maggior successo, anche commerciale, nella storia del rock.
Un brano come la già citata Squealer con quel basso bene in evidenza a dare il ritmo e con i riff dei fratelli Young che vengono sparati sulla folla come se fosse una pubblica esecuzione contiene un fascino particolarmente cool e l’assolo centrale mette in mostra la tecnica e la bravura di questo grande chitarrista nato dalla vecchia scuola blues.
Perchè gli AC/DC sono fatti così, prendere o lasciare, si amano o si odiano. E questa definizione gli resterà appiccicata per tutta la loro lunga carriera, contraddistinta da grandi rock album colmi di adrenalina e dove la Gibson SG del diavoletto Angus Young ci porterà tutti dritti all’inferno.