EDITORIALE – Lo scrissi anche per Unknown Pleasures, ma questo discorso vale ancora di più con l’album che vi proporrò oggi.
Un po’ come accade per i Doors e i Nirvana, di cui i Joy Division rappresentano una sorta di equivalente (sovra)generazionale, il rischio che si corre è collocare troppo in primo piano “l’alone mitologico”.
E’altresì vero che Ian Curtis era una figura autenticamente carismatica e tragica allo stesso tempo e dalla quale risulta difficile scindere Closer, siccome il triste suicidio con cui costui – prima di partire per un tour americano che avrebbe probabilmente cambiato il corso degli eventi – poneva fine alla propria tormentata esistenza, precede di un paio di mesi la pubblicazione del secondo e ultimo disco della band. In modo inevitabile, tutto ciò, lo investe di album ‘maledettissimo’ sin dalla funerea, iconica copertina di Peter Saville che utilizzò una foto realizzata da Bernard Pierre Wolff e raffigurante la tomba della famiglia Appiani, sita presso il Cimitero monumentale di Staglieno di Genova.

Eppure, testamento o meno, le canzoni erano e rimangono memorabili, splendida e coerente evoluzione che dalle asprezze eccezionali dell’esordio Unknown Pleasures, conduce (grazie all’eccellente apporto produttivo di Martin Hannet e all’impiego di sintetizzatori), verso climi che trovano il giusto mezzo tra latente energia e una maestosa drammaticità mista a tensione.
Brani che oggi scopri “fantasmi vivi” e non è una contraddizione in termini, poiché continuano a trattare modelli trattati con coerenza, dalle epiche stagnazioni di The Eternal e Decades, ai citazionismi letterari che trascendono un’epoca per farsi portavoce di “moderne ansie” (James Ballard in Atrocity Exhibition e Kafka per Colony).
L’emotività trattenuta di Means To An End, fino al fremere quasi glaciale di Passover e Isolation.
Canoni o sentimenti che a riproporli non se ne è raccolta che l’esteriorità, essendo inarrivabili come il tuffo dentro un mondo di tenebra, quella Heart And Soul i cui versi recitano testualmente: ‘cuore e anima, uno brucerà’.
E’un brano come questo che chiarisce in pieno come Ian Curtis in quei giorni sia un uomo scisso e ridotto in frammenti, con la reazione quasi assillante poi terminata in abissale smarrimento, di quella che è per me la vera canzone capolavoro di Closer, Twenty-Four Hours, dove il basso di Peter Hook segna quasi un flusso di coscienza ininterrotto e che scala non solo note e corde, ma anche umori, pensieri e tormenti.
Closer, pubblicato il 18 luglio del 1980, è epocale e adulto perché resta l’unico album del panorama gothic dove la sofferenza non è solo cantata, ma anche tristemente e realisticamente vissuta. Ciò lo rende unico e irraggiungibile, non solo per sonorità, atmosfere e testi, ma anche perché imbevuto di quella effettiva disperazione e non della semplice rappresentazione della stessa.
Nonostante le sonorità ed i testi sempre più lugubri e l’atmosfera malinconica e decadente che connota la maggior parte dei brani dell’album, le session vennero descritte dai vari componenti della band, come molto divertenti, costellato dai numerosi scherzi organizzati dai musicisti, in particolare dal cantante. Al netto di quello che poi sarebbe successo di lì a qualche mese e fatta eccezione per i problemi di salute di Curtis (afflitto da una sindrome epilettica), infatti, la band stava vivendo un periodo molto positivo che li vedeva in procinto di pubblicare proprio Closer che, nelle intenzioni del gruppo e nelle speranze dell’etichetta discografica, sarebbe potuto essere quello della consacrazione della band e in attesa di imbarcarsi per il loro primo tour negli Stati Uniti.

Durante le due settimane di lavorazione, Hannett decise di cambiare radicalmente il suo approccio alla produzione rispetto al precedente lavoro della band tramite incisioni con massiccio utilizzo di eco per le tracce di batteria e di chitarra.
Due mesi prima dell’uscita dell’album, però, il 18 maggio del 1980, il cantante e leader della band, Ian Curtis, si suicidò impiccandosi nella sua casa di Macclesfield, a 24 anni non ancora compiuti e così, l’accordo che sin dall’inizio della loro avventura i componenti della band avevano tacitamente stipulato, di sciogliere cioè la band se uno di loro l’avesse abbandonata prima del tempo, venne fedelmente rispettato.
Nacquero così i New Order…ma questa sarà un’altra storia da raccontarvi.