#TellMeRock, 19 agosto 1986: i Bon Jovi di Slippery When Wet e il nuovo rock del sogno americano

EDITORIALE – Capelloni, energici, sensuali e magari anche bravi a suonare. I Bon Jovi si candidano a diventare la band emergente di un nuovo miracolo rock anni ’80 e, arrivati alla metà di questi, tirano fuori un disco monumentale, eccitante, pazzesco. Un lavoro che esce quasi in sordina, con la band reduce dal mini successo, tirato per le orecchie, di 7800° Fahrenheit, e poi diviene un boom mondiale, tanto grande tanto inusitato. Il terzo album, Slippery When Wet, pubblicato il 19 agosto 1986, proietta il quintetto verso un successo megagalattico che gli ha fatto vendere, sino ad oggi, oltre 30 milioni di copie, con successi planetari come You Give Love a Bad NameLivin’ on a PrayerWanted Dead Or Alive e Never Say Goodbye.

Singoli luccicanti come sciabole al sole, pronte a recidere le ultime resistenze nelle fila dei loro detrattori, che negli ultimi tempi si erano ingrossate. Jon ha raccontato che il disco prese questo titolo dai segnali stradali presenti sulle autostrade americane, ma è una balla da bravo ragazzo della provincia americana, la verità è un’altra, molto più hard!


Durante le registrazioni del disco i Bon Jovi frequentavano assiduamente un club di strip-tease dove delle ragazze incredibilmente belle si versavano addosso acqua e sapone. Diventavano così scivolose che nessuno riusciva a stringerle neanche se avesse voluto portarsele a casa. Qualcuno della band, probabilmente un po’ alticcio di voglie sessuali e cocktail, urlò “Slippery when wet!” (scivolose se bagnate) e gli altri immediatamente realizzarono: doveva essere il titolo del nuovo disco! In origine pensavano di mettere in copertina una foto con delle enormi tette, veramente grosse, ma il Parents Music Resource Center, un’associazione moralista controllata da Tipper Gore, moglie dell’allora Vice Presidente degli Stati Uniti Al Gore, il famigerato PMRC, e solo chi ha vissuto quegli anni sa quanto questo comitato di bacchettoni americani ha rotto le palle alle rock band, chiedere per dettagli a Dee Snider che venne addirittura processato, aveva intenzione di denunciare la copertina, mettendo band e casa discografica in un grosso guaio. Perciò venne usata un’immagine più tranquilla. Pochi sanno che ad inventare la nuova sleeve fu lo stesso Jon Bon Jovi, che di fatto prese un sacco di immondizia bagnato e ci scrisse sopra con il dito Slippery When Wet. Nacque così la cover di uno dei dischi più venduti nella storia del rock anni ottanta, alla faccia dei grandi studi di comunicazione e immagine.
Pubblicato per la Mercury Records, prende come produttore un magico Bruce Fairbairn che riesce a tagliare su misura un sound maturo, corposo e adulto, spremendo dai ragazzi forze ed ispirazioni impensabili.

Le note prendono subito fuoco e Let It Rock, firmata dal duo Bon Jovi-Sambora, come accadrà spesso in questo lavoro, sfugge all’orbita e incendia i cuori. Una nebbiolina chitarristica si dirada ed entra il synth con una progressione neo classica favolosa, grande David Bryan, poi scocca il rock pugnace quello fatto di cori, voce possente, rullante a sparo e chitarre penetranti. Quale miglior prologo poteva esserci? Garantisco, niente di meglio.

Il pezzo numero due è l’apoteosi della melodia commissionata all’efficacia del saper inchiodare l’ascoltatore. You Give Love a Bad Name è un singolo aureo, fantastico, con lo zampino di quella vecchia volpe di Desmond Child. Partiture perfette, scansioni armoniche, tastiere bilanciate al punto giusto e un chorus da farfalle nello stomaco con un solo della sei corde che mette in evidenza un ottimo Sambora. Il videoclip che furoreggiò in tutte le tv del globo, girato in due versioni, metà bianco e nero e a colori, il secondo in full color, vede la band divertirsi da matti su un palco non ancora stellare ma accattivante e mette sugli scudi un Tico Torres che suona con pacca e si diverte; per la cronaca Tico era un esperto musicista già allora, avendo partecipato a jam session con Miles Davis e suonato dal vivo con The Marvelettes e Chuck Berry e ben ventisei dischi registrati in studio. Un veterano, insomma, che non aveva intenzione di rischiare una già promettente carriera per seguire un gruppo di principianti: la leggenda narra che solo la volontà e la passione di Jon lo convinsero definitivamente. Il primo singolo diventa un manifesto della nuova Bon Jovi mania dilagante, supportata dalla freschezza e dalla voglia di divertimento dei componenti del gruppo che traspariva chiaramente dai loro atteggiamenti live e non.

Poi arriva la leggendaria Livin’ on a Prayer, forse il singolo che ha cambiato la vita di Jon Bon Jovi. Eppure, a lui, non è mai piaciuta molto: “Ho sempre pensato che fosse Ok, niente di più” ha raccontato.

Scritta insieme a Desmond ChildLivin’ on a Prayer è la seconda hit consecutiva dei Bon Jovi a volare al numero uno in classifica in America dopo la, suddetta You Give Love a Bad Name nel 1986, vende tre milioni di copie, lancia l’album Slippery When Wet al successo e diventa una specie di inno del New Jersey raccontando la storia d’amore, speranza e redenzione di Tommy e Gina.

Lui lavora al porto, lei fa la cameriera in un ristorante, insieme sognano una vita migliore: secondo quanto ha raccontato Desmond Child, il testo è ispirato alla sua vita alla fine degli anni ‘70, quando faceva il tassista ed era fidanzato con un’aspirante cantante di nome Maria che tutti chiamavano Gina per la sua somiglianza con l’attrice italiana Gina Lollobrigida.

Molti ragazzi si riconoscono nella storia, Livin’ on a Prayer entra nel cuore del New Jersey e trasforma i Bon Jovi nella band del momento, come hanno detto i discografici della loro etichetta Mercury Records: “Erano la band giusta nel momento giusto con le canzoni giuste. Sapevamo che sarebbero diventati grandi”.
E poi c’è l’intuizione del chitarrista Richie Sambora, che rilancia il “talkbox”, un effetto che permette di emettere suoni distorti usando la bocca, reso famoso da Peter Frampton nell’album Frampton Comes Alive del 1976 che i Bon Jovi fanno scoprire al pubblico degli anni ‘80.

Eppure, secondo quanto riportato da Ultimate Classic Rock, quando hanno registrato Livin’ on a Prayer ai Little Mountain Sound Studio di Vancouver, Jon Bon Jovi ha detto: “Non mi convince, forse dovremmo usarla per la colonna sonora di un film”. Pare che Richie Sambora gli abbia risposto: “Sei un idiota, è un gran pezzo“.

Oggi Jon Bon Jovi si è reso conto di aver sottovalutato quel brano con cui, come ha detto lui stesso, si è comprato la sua prima casa: “Chi poteva saperlo? L’abbiamo fatta in un momento in cui nessuno di noi aveva idea di cosa sarebbe successo. Di una cosa sono contento: che sia firmata con il mio nome”.

Social Disease, di fronte a cotanta magia scende di livello, non per la stesura in se stessa ma per il confronto insostenibile. Grande sound che disegna una buona canzone rock con le key che gentilmente irrompono negli stacchi e tappezzano la song fatta di una chitarra dura e presente. Sambora, da questo album, diviene il perno nodale dell’affresco della band, ovviamente in coppia con il bel Bon, loro tireranno le fila musicali e compositive per gli anni a venire con tanta qualità e versatilità.

Wanted Dead or Alive fa trattenere il fiato, unaroba incredibile. Semi ballad acustica stellare, un altro pezzo di paradiso sceso in terra tramite le chitarre marchiate New Jersey. Inutile commentare questi 5:08 di puro diamante, riascoltatela, e i sentimenti rifioriranno freschi nella vostra anima.

Parte sparata e secchissima Raise Your Hands e prosegue in crescendo con una guitar che non da tregua e una sezione ritmica atletica e possente. La voce di Jon è espressiva e capace, i cori segnano territori da rock durissimo e ribelle, grande il solo della sei corde che tradisce ottima tecnica e creatività a mille.

Without Love invece è una semiballad elettrica dal grande gusto con la voce solista che gratta rocamente qui e la scoprendo nuovi colori nel sound, mentre I’d Die for You comincia con gli stessi accordi di synth che caratterizzavano Runaway, primo singolo di successo estratto dal primo album eponimo, ma poi si estrania diventando un grande pezzo acido con tastiere insistenti e ritmate che sostengono una base granitica con Sambora che detta tempi che la batteria di Tico sorregge a meraviglia e Jon saccheggia la propria ugola dando il meglio.

Never Say Goodbye è la classica ballatona da accendini e lacrimuccia facile, con le memorie di gioventù e le prime esperienze sessuali. Uno scheletrato docile ma non delicato, sognante ma molto terreno, con una batteria che picchia e una chitarra che fischia il giusto e un Bon Jovi meaestoso e lamentosamente nostalgico nel ricordare i vecchi tempi; composizione notevole, mai dimenticata dai fans.

https://youtu.be/ifm00JEjSeo

Il decalogo del nuovo rock americano si completa con l’ultima track in scaletta, Wild in the Streets, a firma del solo Jon. Lo possiamo dire senza paura di essere smentiti, è il classico riempitivo. Non una ciofeca, per carità, solo una specie di arrivederci al pubblico non certamente eccelso.

Ma ci sta anche una cosa così in uno Slippery When Wet prodigioso e incredibilmente bello. Appena il disco raggiunse quote di vendita tranquillizzanti per la label, la casa discografica sparse in giro per il mondo i cinque che vedevano, data dopo data, crescere i fans e le posizioni nelle charts, inutile dire che anche stavolta Mtv giocò un ruolo pazzesco nel successo lievitato a dismisura dei Bon Jovi. Ma assai meritato, questo va detto. Un band con idee, carisma, tecnica sopraffina e un gusto per la melodia che in pochi posseggono. Non è certamente un caso se questo album, ancora oggi, risulta essere uno dei dischi rock più venduti nella storia della musica. D

Durante il tour che seguì, Jon ebbe dei problemi seri con la propria voce. Le note particolarmente acute e il ritmo frenetico dei concerti minacciavano di provocargli dei danni permanenti alle corde vocali. Con l’aiuto di un maestro di canto riuscì a finire il tour. Da quel momento in poi cominciò a cantare su tonalità leggermente più basse. I tour furono massacranti ed esaurirono uno ad uno tutti i singoli componenti del gruppo: guardate il video di Wanted Dead Or Alive, girato in tournée, e capirete cosa intendo.

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