EDITORIALE – La scena è questa: termina il capolavoro Full Metal Jacket e parte una colonna sonora dai ritmi “molto indù” che sembra quasi richiamare Bollywood più che Hollywood.
E più che Brian Jones, sembra quasi che stia partendo il suono del sitar del maestro indiano Ravi Shankar, fonte di ispirazione per numerosi gruppi “psichedelic rock” di fine anni 60.
Si parte da Paint it Black quindi per raccontare l’ascesa degli Stones grazie al loro Aftermath, uscito in Inghilterra il 19aprile del 1966 e negli USA il 2 Luglio dello stesso anno.
Quando il brano uscì nel suddetto anno, in molti pensarono che fosse una “dichiarazione” razziale. Colpa di una virgola, misteriosamente e inspiegabilmente stampata sulla copertina prima della parola Black che generò non poche incomprensioni perché sembrava un’esortazione: “Dipingilo, nero” – dove nero poteva essere non solo il colore, ma anche l’uomo di colore.
E’ invece la triste storia di un ragazzo che, dopo aver perduto il suo amore, vorrebbe dipingere di nero tutto quanto, per intonare le cose della vita al suo umore malinconico.
La musica nacque per gioco, quando Bill Wyman cominciò a improvvisare all’organo un riff tipico dei matrimoni ebrei per fare il verso a Eric Easton, che prima di diventare il manager degli Stones era diventato un organista dilettante. Charlie Watts gli andò dietro aggiungendo qualche sapore mediorientale. In questo modo e con l’aggiunta del sitar che gli Stones avevano scoperto alle isole Fijii, il ritmo poteva fare da contraltare al testo.
Il verso I have to turn my head until my darkness goes, Jagger lo prese in prestito dall’Ulisse di Joyce.
Ma Aftermath è il preludio alla grandezza dei Rolling Stones, una prova di maturità fatta di “annunciazioni”, preveggenze e molto altro.
Nemmeno fosse un’apparizione “sacra”, ad esempio, (I Can’t Get No) Satisfaction appare a Keith Richards in sogno, con il suo riff definitivo, e in un paio di settimane è nei negozi americani, tre mesi prima che in quelli britannici.
E’ il primo numero da “star system” degli Stones, il cosiddetto “turning point” della loro carriera.
Ma il 1965 è anche l’anno di Got Live If You Want It, EP inglese dal vivo da non confondere con l’omonimo, successivo album americano, di Out Of Our Heads, primo 33giri di buon peso e di un altro singolo favoloso, lo “spiritato” Get Off Of My Cloud.
L’ultimo brano sopra citato potrebbe essere preso a paletto indicatore della fine dell’adolescenza degli Stones che nell’aprile del 1966 (quindi circa 54 anni fa, “benedica”), entrano con Aftermath in una nuova dimensione che, seppur sempre musicalmente “maleducata” e ribelle, diventa sempre più matura e posata, quasi coerente e più esperta.
Lavoro che rischia di soccombere all’eccesso di ambizioni ( i tanto incensati undici minuti di Going Home sono francamente eccessivi e lunghi), ma forte di canzoni clamorose come la provocatoria Mother’s Little Helper e la sensuale e nel contempo sbarazzina e crudele Out Of Time (nell’edizione britannica) o il folk barocco di Lady Jane.

E’l’album della sperimentazione, delle svolte improvvise come suddetto, dove giocò un ruolo fondamentale Brian Jones, il quale fu importante nello stabilire il tono generale degli arrangiamenti del disco, suonando con strumenti quali marimba, koto, sitar e dulcimer; che insoliti in canzoni folk, pop, country, blues e rock, crearono un diverso ed originale miscuglio di generi musicali.
Aftermath fu importante perché mise la coppia Jagger/Richards allo stesso livello di compositori come Lennon/McCartney e Bob Dylan, e ridefinì i Rolling Stones come band sempre votata al rhythm and blues, ma anche artisticamente creativa e aperta a nuove influenze.
Seppure il loro Aftermath non raggiunga i livelli formali di opere quali Freak Out di Zappa o di Blonde on Blonde di Dylan, in quanto a contenuti gli Stones mostrano di essere perfettamente al passo con i tempi e all’altezza dei contemporanei.
La scelta del blues come sound portante dei loro pezzi è fondamentale: si vogliono rappresentare e si vuole usare il linguaggio dei nuovi neri, dei nuovi schiavi, e per farlo si ricorre proprio alla musica che cantavano i neri americani per le strade o nei campi di cotone.
Inoltre i quattro pongono le basi per quello che d’ora in poi sarà l’archetipo della rock band e del suo “modus vivendi”, insomma: sex,drug and rock’n’roll! Niente di più lontano dalle canzonette beatlesiane…
Stupid Girl si costruisce su un beat regolare, su un vivace organetto e su un basso tipicamente blues. La struttura è la stessa delle canzoni merseybeat, ma questa non è una canzonetta, sia per il testo che sembra proprio scagliarsi contro le tipiche fan del genere dei quattro di Liverpool, sia per un uso decisamente più consapevole e violento delle chitarre. Il tema poi è davvero immortale, tanto che oggi può apparire banale e scontato (vedi per esempio le inutili canzonette come Stupid girls di Pink…).
Lady Jane è una delicata ed equivoca ballata d’amore, ma fortunatamente mancano le rifiniture eleganti che sarebbero presenti se si trattasse di musica pop. Inoltre l’amore di cui si parla non è idealizzato, né la donna è angelicata: il cantante si sottomette ad una Lady Jane che più che una dolce compagna sembra essere una padrona.
Under My Thumb ritorna a far valere le chitarre elettriche di Richards, arricchite da un melodioso vibrafono. Il titolo avrà sicuramente fatto impallidire qualche benpensante, ma Jagger e soci non stanno scrivendo per questo tipo di audience, al contrario sono un gruppo blues-rock dei bassifondi, e le loro canzoni rispecchiano proprio il milieu in questione.
Doncha Bother Me è un blues rock in cui spicca la chitarra di Richards e in cui i cinque impongono definitivamente il loro stile. Strofa e ritornello costituiscono ancora lo schema portante dei brani, ma ecco che spunta il suono di un’armonica ad aprire uno splendido stacco strumentale; il tutto poi riparte con il solito irresistibile motivo iniziale.
Think è un altro pezzo innovativo, non per il fatto che stravolga la forma canzone, ma perché ne modifica la funzione, l’interpretazione ed il messaggio. Inoltre viene dato maggior peso alla parte strumentale, soprattutto a quella chitarristica, al contrario di come continuavano a fare gruppi come i Beach Boys, impegnati nella cura delle parti vocali e corali.
La bellissima Flight 505 vede un pianoforte dixieland e poi veloci ed energici accordi di chitarra, dare vita ad un trascinante pezzo rock’n’roll intriso di blues da bettola, sporco e rude, caratterizzato dalla voce nasale di Jagger.
High And Dry è un pezzo di blues delle origini: ruvido, schietto, esplicito ed evocatore della vera essenza del genere, quella che nei quartieri bene si cercava di dimenticare. L’armonica suona più ispirata che mai, riportandoci alle radici della musica, le radici più autentiche e genuine.
Out Of Time fu scritta da Mick Jagger e Keith Richards. Jagger ne produsse una versione particolare per Chris Farlowe, artista della Immediate. La prima versione comparve nell’album Aftermath (versione britannica) del 1966, con una durata di 5 minuti e 37 secondi, impreziosita da una parte di marimba suonata da Brian Jones. La versione inserita nella raccolta per il mercato statunitense Flowers del 1967 era, invece, accorciata a 4 minuti e 41 secondi. Nel 1975 il brano fu inserito nella compilation Metamorphosis, ma si trattava, in realtà, della base orchestrale della cover di Chris Farlowe con l’aggiunta della voce di Mick Jagger (e di un nuovo coro femminile di sottofondo). Il singolo, fortemente voluto da Allen Klein, all’epoca ex manager dei Rolling Stones, raggiunse la posizione numero 45 delle classifiche britanniche. Il brano è anche in scaletta nel Sixty Tour in corso. Qui vi propongo la versione suonata a Milano lo scorso 21 giugno.
Ma dalle radici deve nascere qualcosa, ed ecco che It’s Not Easy ripropone quel sound veloce e corrosivo tipico delle tracce precedenti. Un ottima sessione ritmica ed una chitarra precisa rendono unico ed originale il ritornello, destinato a sfociare verso assoli tecnici e irresistibili. La voce graffiante di Jagger è poi indimenticabile e destinata a lasciare segni molto profondi nel rock a venire.
I Am Waiting è dominata da un tutt’altro che banale senso della melodia, nuovamente riconducibile alle sonorità psichedeliche tipicamente anni ’60, capace di contrastare, ma senza stonare, con gli altri brani dell’album. Insomma, si tratta di tenerezza, ma sempre proveniente dai nostri “rudi, brutti e cattivi” Stones.
Come al solito il pezzo si conclude in fade out per lasciare spazio alla bellissima Going Home, l’ultima traccia. Si tratta di un blues “ciondolante” portatore di un messaggio romantico, ma si parla qui di un romanticismo sempre strettamente collegato alla dimensione carnale, mai idealizzato. Il pezzo va avanti con la solita struttura, ma questa volta non finirà con lo spegnersi in tre minuti: stiamo infatti ascoltando una lunga jam di undici minuti, in cui Jagger trova sfogo e si lancia in una serie di vocalizzi liberi.
Se ne vanno quindi stupendoci i Rolling Stones, impressionando un’intera generazione che porterà nel cuore il loro mito e le loro canzoni e una serie di gruppi la cui musica risulterà profondamente influenzata da queste pietre (miliari) rotolanti.