#TellMeRock, 20 Gennaio 1975: I cinquant’anni di Blood On The Tracks, l’amore e l’abbandono secondo Bob Dylan

EDITORIALE – Capita almeno una volta nella vita di un uomo di trovarsi ad assistere inerme alla fine di un amore che sembrava infinito. Capita spesso che quell’uomo non riesca ad elaborare subito la fine di un simile amore, come non si riesce subito ad elaborare un lutto, e che senta la necessità di parlarne per poterlo guardare con il distacco necessario che ne lenisca il dolore. Capita a volte, però, che l’amore finito sia tanto grande da rimanere troppo privato per trovare un interlocutore che lo possa comprendere e che allora il solo modo per elaborarlo sia farne un oggetto, da contemplare, come un dipinto o una poesia. Se capita a un artista di professione è probabile che egli ne tragga un capolavoro, proprio come è successo a Bob Dylan: così è nato “Blood On The Tracks”, pubblicato il 20 gennaio del 1975.

Del suo amore spezzatoquello per sua moglie Sara, Dylan ne fa un disco on the road nel quale il viaggio è spesso ideale e solo a volte reale: in esso si mescolano l’abbandono, l’attesa, la ricerca e il rifiuto dei due amanti, e a raccontarle è la voce stessa del cantante, in prima persona, che si mette in gioco com’è nel suo dna, ma stavolta, forse perché è fin troppo chiaro che egli parla di sé stesso, non lo fa più da solo, ma si lascia aiutare dalla musica, la quale, rompendo con la tradizione dylaniana, ha in questo disco un valore fondamentale in ogni singolo brano. Il basso morbido, come un cuscino che raccoglie le lacrime dell’amante, si staglia sul fondo di ogni parola arricchendola di volume, la steel guitar riempie gli spazi vuoti lasciati dalla chitarra acustica e prolunga il suono tra una nota e l’altra come una carezza, le tastiere creano il languore che le parole cercano di pronunciare senza riuscirci del tutto e anche la batteria sembra rispettare, dove è necessario, l’atmosfera calma di alcune frasi, per poi accompagnarle, quando sentono il bisogno di esplodere di rabbia, insieme all’armonica, che tra un lamento e l’altro sferza la disperazione meglio di qualsiasi grido.

La prima incisione che Dylan fece di “Blood On The Tracks” (New York, 1974) era scarna, priva dell’ausilio che questi strumenti danno alla sua chitarra e alla sua voce, e forse, per quanto in questa fosse più esaltata la spontanea disperazione dell’artista, l’incisione finale (Minnesota, 1975) ha arricchito il disco di una musicalità tale che lo ha trascinato via dal pericolo di affondare nelle sabbie mobili di un’opera introspettiva e priva di quell’universalità che solo i capolavori riescono ad avere.

Il disco si apre raccontando di due amanti che si dividono lungo il viaggio attraverso l’America a cui la vita li costringe, senza però mai abbandonarsi veramente, sempre con la consapevolezza che un giorno ancora si ritroveranno e che la tristezza che entrambi provano lontani l’uno dall’altra è ciò che li unisce oltre ogni distanza (“Split up on a dark sad night / Both agreeing it was best / She turned around to look at me / As I was walkin’ away / I heard her say over my shoulder / “We’ll meet again someday on the avenue,” / Tangled up in blue”)Ma la lontananza si aggrava del peso della responsabilità di un amore sottovalutato, dato per scontato come un semplice scherzo del destino (“Simple twist of fate”) e tutto si trasforma in una straziante attesa (“How long must he wait / Once more for a simple twist of fate), un rimpianto che spera di essere ascoltato (“I hope that you can hear / Hear me singin’ through these tears”), nonostante la consapevolezza che molte cose siano cambiate (“You’re a big girl now”).

Ma a questo punto l’uomo ferito, caricato delle proprie responsabilità, tenta una sferzata di orgoglio e cerca di dare anche alla sua amante le responsabilità che merita: lo fa disprezzandola, riuscendo quasi nell’intento di trasformare tutto il proprio amore in odio (“Idiot wind, blowing every time you move your mouth / Blowing down the backroads headin’ south / Idiot wind, blowing every time you move your teeth / You’re an idiot, babe / It’s a wonder that you still know how to breathe”), quasi, almeno fino a quando si rende conto che è tutto inutile, che tutto questo non riporterà da lui la donna che ha amato perché sono stati entrambi a distruggere il loro amore (“Idiot wind, blowing through the buttons of our coats / Blowing through the letters that we wrote / Idiot wind, blowing through the dust upon our shelves / We’re idiots, babe / It’s a wonder we can even feed ourselves”).

E ritorna la disperata solitudine, i giorni appaiono irreparabilmente scuri, come notti infinite (“Every day’s been darkness since you been gone) nella speranza irrinunciabile di un mattino nuovo (“Meet me in the morning”) che lentamente diventa illusione e trasforma anche gli stessi ricordi in sogni, come se la realtà ormai impossibile dell’amore abbia solo questo spazio immaginario per vivere ancora.

Così egli s’illude che porterà la donna che ama con sé dovunque andrà (“I’m takin’ you with me, honey baby / When I go) e che lei sarà la sua salvezza, il rifugio dove potrà finalmente curare le ferite sanguinanti che si sono aperte durante questo lungo viaggio (“I was burned out from exhaustion, buried in the hail / Poisoned in the bushes an’ blown out on the trail / Hunted like a crocodile, ravaged in the corn / “Come in,” she said / “I’ll give you shelter from the storm.”), senza realmente accorgersi che il viaggio si è spostato tutto nella sua mente e che ora è questa a sanguinare perché ancora è certa che tutto tornerà come prima (“Well, I’m livin’ in a foreign country but I’m bound to cross the line / Beauty walks a razor’s edge, someday I’ll make it mine”).

Dylan di tutto questo ne avrebbe voluto fare un quadro, un dipinto (lo dichiarò in una intervista, parlando di “Idiot wind), forse perché a volte le parole non bastano a descrivere qualcosa, nemmeno se sei un poeta di professione.

Eppure se “Blood On The Tracks” non avesse superato la barriera del silenzio, non ne avrebbe perso solo la musica, ma l’arte stessa, perché questo viaggio attraverso un passato di amore e rabbia, dentro un presente costellato di speranza e rimpianto, compiuto a nervi scoperti da una voce che avanza tra le parole e la musica lasciando dietro di sé tracce di sangue a macchiare i binari di un treno che non tornerà più indietro, è un’opera d’arte.     

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