EDITORIALE – Il 25 Settembre del 1976 era un sabato pomeriggio.
Una combriccola scalcinata di sette ragazzi residenti a Dublino si ritrovò nella cucina della famiglia del batterista Larry Mullen, autore dell’appello per il reclutamento affisso nella bacheca della sua scuola, al fine di mettere a punto le prime strategie di una nuova band.
A quel briefing d’esordio ne seguirono altri; il combo si chiamò dapprima Feedback, poi The Hype e infine U2; e il settetto venne dapprima scremato a quintetto per poi stabilizzarsi, nella primavera del 1978, nella formazione a quattro giunta fino a noi. Da quel momento, nessuno si è più aggiunto agli U2 e nessuno se n’è più andato dagli U2.
Bono, The Edge, Adam Clayton e il suddetto Larry formarono pertanto la lineup anche della prima prova lunga, quel Boy, pubblicato il 20 ottobre del 1980, che a posteriori non pochi musicisti rock dichiareranno di aver preso a modello nonostante – va detto – non fosse una pietra miliare. O quantomeno non valida al punto da inserirla nella galleria delle perle dell’ondata post/punk.
Come spesso accade, il primo album di una band è anche il suo primo… Best of. Boy fu sostanzialmente una raccolta del meglio della produzione degli U2 fino ad allora, contenendo parecchi brani già facenti parte del repertorio e che i primissimi fans conoscevano da tempo; fu il tentativo di dare ordine a quattro anni di lavoro, fissando su nastro svariati pezzi composti anche molto tempo prima di iniziare le registrazioni, affiancati ad alcuni altri scritti in studio appositamente per completare la tracklist.
Il loro primo singolo A Day Without Me, uscì nell’agosto del 1980. Nonostante gli scarsi introiti e il mancato ingresso del brano nella Official Singles Chart, gli U2 riuscirono comunque a sfoggiare la propria creatività emotiva, dando ulteriore spinta a nuovi elementi sperimentali e facendo risorgere il punk rock.
Il singolo è stato registrato presso gli Windmill Lane Studios. Nell’etichetta del vinile, viene riportato il nome del gruppo con la grafia U-2. È il secondo singolo che il gruppo pubblica con la Island Records ed il primo che vede gli U2 collaborare con il loro produttore storico Steve Lillywhite, che in precedenza aveva lavorato con altri gruppi emergenti della cosiddetta “new wave” come i Siouxsie and the Banshees e XTC. Il brano è stato suonato dal vivo nella prima parte degli anni ottanta ed è presente nel concerto che gli U2 tennero al Red Rock Amphiteatre, presso Denver in Colorado, poi inserito nel video Live at Red Rocks: Under a Blood Red Sky.
Per i quattro, la band era iniziata a diventare una cosa seria – come abbiamo detto – dai primi mesi del 1978, quando il seguito di fan in città iniziò a farsi nutrito e le testate più importanti del paese iniziarono a dedicare trafiletti sempre più consistenti alle loro esibizioni. Dopo un primo periodo passato a suonare brani altrui, quell’anno gli U2 presero a scriverne di propri da presentare ai concerti o registrare sui demo con cui tentavano di fare breccia nelle case discografiche.
Va detto che l’album, pubblicato su Island Records, l’etichetta che fece conoscere al mondo Sua Maestà Bob Marley, nacque sotto una cattiva stella. Il produttore designato inizialmente era infatti Martin Hannett, già dietro la consolle per il mitico Unknown Pleasures dei Joy Division. Il suicidio di Ian Curtis però stravolse i piani, dal momento che Hannett, grande amico – oltre che collaboratore – del vocalist britannico e della sua band, si ritirò dal progetto e gli U2 furono costretti a cercarsi un altro producer. Con Hannett, tra l’altro, l’approccio dei quattro non era stato dei migliori. Il suo metodo analitico, distaccato e compassato mal si sposava col piglio esuberante, acerbo e confusionario della band. Inoltre Hannett, per formazione professionale, era portato a prediligere i suoni sintetici piuttosto che valorizzare il sound del gruppo.
Per farsi un’idea della resa del suo lavoro con gli U2 si può ascoltare il singolo 11 O’Clock Tick Tock, pubblicato – sempre da Island – appena un paio di giorni prima della tragica morte di Curtis. La scelta del sostituto cadde su Steve Lillywhite (già al lavoro su Drums & Wires degli stessi XTC) e si rivelò provvidenziale. Il nuovo produttore aveva un approccio totalmente diverso rispetto al suo predecessore, un atteggiamento molto più vivo, propositivo, coinvolgente, e fu lui a tenere la barra dritta e instradare una band ancora evidentemente immatura e che faticava da matti a trasferire in studio le qualità che mostrava sul palco.
Merito suo se la narrazione sonora di Boy risulterà coerente e dalla qualità comunque abbastanza elevata per un gruppo alla prima prova. Anzi, diciamo pure merito suo se le magagne di un ensemble la cui impreparazione tecnica era evidente, in special modo riguardo alla sezione ritmica, non inficeranno la resa complessiva dell’opera; non a caso produrrà anche i successivi due album degli U2, oltre a partecipare in modo sostanziale ad altri loro lavori nel corso degli anni.
Anche sul piano tematico, il disco aveva una sua ragion d’essere. I testi erano appannaggio di Bono e il leitmotiv era il delicato passaggio dalla giovinezza all’età adulta condensato, oltre che in quella che possiamo considerare la locuzione manifesto dell’opera, vale a dire In the shadow / Boy meets man, da Twilight, nella copertina raffigurante il mezzobusto stilizzato e in bianco e nero di un bambino a torso nudo (si trattava di Peter Rowen, il fratello minore di Derek – alias Guggi – dei Virgin Prunes, storica band anch’essa dublinese e amica degli U2), scelta grafica che negli USA costerà ai quatto l’accusa di alludere alla pedofilia (del resto, un passaggio come il summenzionato Nell’ombra il ragazzo incontra l’uomo, ai più maliziosi potrebbe suggerire qualcosa di più di una metafora esistenziale) costringendo la Warner – distributrice sul suolo americano – a pubblicarlo con un’altra copertina.
La parola boy compariva svariate volte nei testi, dove si potevano scorgere riferimenti autobiografici che raggiungevano l’apice della drammaticità in momenti come I Will Follow, la prima vera hit degli U2 e tuttora cavallo di battaglia del quartetto dal vivo. Il brano venne scritto in circa 3 settimane prima che gli U2 andassero in studio a registrare proprio Boy. Bono Vox ha dichiarato di aver scritto la canzone dalla prospettiva di sua madre e parla dell’amore incondizionato che appunto una madre ha per i suoi figli. Nel brano si può ascoltare la musica di un carillon fatto risuonare dal produttore Steve Lillywhite. È un brano che fa parte del repertorio classico degli U2 negli spettacoli dal vivo ed è stato inserito nel live Under a Blood Red Sky, che è stato il punto di svolta nella loro carriera. In tutti i tour che si sono succeduti successivamente all’uscita del singolo, il brano è stato sempre presente in almeno una delle date, tanto da risultare la canzone più suonata in assoluto dal gruppo irlandese.
The Ocean, è invece ispirata alla morte della madre del frontman avvenuta alcuni anni prima.
Boy era un disco energico, vitale, prorompente e impregnato di urgenza espressiva ma che solo in parte seppe restituire la forza promanata dalla band in concerto, dimensione prediletta dai Nostri perlomeno fino a The Unforgettable Fire, quando a dirigerli in studio arriverà Brian Eno.
Oggi è considerato – forse un po’ forzatamente e col senno di poi – uno dei migliori debutti di sempre, cosa che per la verità cozza con la benché minima conoscenza musicale. Probabilmente fu però il più compiuto della prima trilogia a firma U2, quella completata da October e War, e sublimata dal live Under A Blood Red Sky, quello sì momento campale della storia del rock. E di certo fu il banco di prova che gli schiuse la prima di tante porte.