Se con Paranoid i Black Sabbath avevano cambiato le sorti dell’hard rock e la nascita del “metallo”, il 21 Luglio del 1971, Ozzy e compagni intesero di andare fino in fondo e caratterizzarsi definitivamente come band “nera”, oscura e sepolcrale.
Non avendo profondo e vissuto background culturale in materia, né autentiche inclinazioni e voglie per l’occulto e l’ossianico, l’obiettivo viene raggiunto operando sul suono, estremizzandolo nella direzione voluta tramite un semplice, ma al tempo inedito, accorgimento tecnico: il chitarrista Tony Iommi ed il bassista Geezer Butler “allentano” le corde dei loro strumenti, accordandoli tre semitoni sotto lo standard. Ne deriva un poderoso arricchimento dei toni bassi, lugubre viatico per riff chitarra/basso ottusamente stranianti, sordidamente disturbanti.
Ed è da questa base che nasce il leggendario Master Of Reality, cinquantadue primavere compiute proprio oggi.
Il suono distortissimo ed ipercompresso di tre strumenti in unisono (due chitarre ai lati dell’immagine stereo ad eseguire le stesse note, il basso al centro, a prendere le note un’ottava sotto) è un qualcosa di mai sentito fino ad allora: sempre rock, ma con un che di monolitico e asfissiante, senza possibilità di aperture, di sollievo armonico, senza spiragli di luce.
Quanto agli altri due compagni d’avventura, per essi non c’è bisogno di spostarsi un millimetro dal loro stile già dispiegato nei due precedenti lavori. Il batterista Bill Ward ha una sua maniera, assai creativa e progressive, di picchiare su tamburi e piatti, donando al gruppo la sua parte di fantasia. Ozzy Osbourne infila il suo timbro beffardo e spastico, autenticamente sepolcrale, fra le immani volute chitarristiche della musica. Poco importa che sia stonato, biascicato, afono, dislessico, sommamente imperfetto, Osbourne è l’inimitabile voce del gruppo, con una carica tutta sua che non può avere alternative, un cantante che non sa cantare ma è più cantante di tutti perché è lui, è solo lui, inconfondibile ed essenziale a dare la sua caratterizzazione alla formazione.
Master Of Reality presenta otto composizioni, cinque delle quali sono mastodontiche raccolte di quei riff cupi e ottusi di cui si diceva. Quella che nel tempo ha avuto maggior fortuna, diventata da subito un classico nei concerti e poi per tutta la carriera e tutte le formazioni dei Sabbath, si intitola Children Of The Grave. Iommi, Butler e Ward martellano un groove pesantissimo per far cantare Ozzy, poi svariano in riff più creativi e disturbanti, fino al finale da cimitero: acquietatasi la ritmica, resta un rombo distorto ed instabile che si avviluppa intorno al sussurro tremendo del cantante, che sibila iterativamente la frase del titolo. Autentico, pacchiano, tamarrissimo rock pesante della classe proletaria di Birmingham. Se qualcuno dovesse chiedervi cos’è l’hard rock più puro, fategli ascoltare questo pezzo.
Altro grande brano è la precedente After Forever: sull’assolvenza di un sinistro bordone di sintetizzatore, parte una cavalcata devastante di chitarra/basso con un’alternanza di riff uno più bello dell’altro, uno più intelligentemente ottuso dell’altro. Iommi è chiamato dai suoi ammiratori “The Master Of The Riff” ed in effetti la sua qualità migliore è quella di mettere a punto frasi chitarristiche di efficacia unica. Come solista è invece assai limitato, benché il suo stile acido e scomposto abbia fatto anch’esso scuola. Dovendo d’altronde suonare con due falangette artificiali al medio ed all’anulare, parzialmente amputati (un incidente sul lavoro in fabbrica, in gioventù), la sua sensibilità nel “lavorare” le corde non può essere ottimale.
A spezzare la monoliticità (ma non l’atmosfera pesante) dei brani rock, ci pensano le restanti tre composizioni. Due di esse sono brevi strumentali: in Embryo, Iommi opera con un archetto sulla corda più grave della propria Gibson. L’effetto è quello di un violoncello, assai lugubre e quindi in linea con lo stile di tutto l’album. Orchid vede invece in azione un paio di chitarre acustiche, naturalmente accordate più basse del normale, efficace preludio all’irrompere squassante del riffone madornale del brano successivo Lord Of This World. Solitude è invece un brano di durata normale, un “lento” alla maniera dei Black Sabbath, cioè inquietante al massimo grado, con la voce di Osbourne resa filamentosa e spettrale da un appropriato effetto Leslie.
Ma il senso di cupezza si chiude con il riff dilaniante e mistico di Into The Void, autentico gioiello dei Sabbath. Un pezzo di altri tempi, pionieristico e iconico, con quella sua capacità di essere apocalittica, maestosa, pachidermica, e al tempo stesso dinamica e sfaccettata.
All’epoca, ed ancora per molti altri anni, i Sabbath erano praticamente gli unici in questa ossessiva (e pure di grana grossa) ricerca dell’oltretomba nella loro musica. Nulla faceva presagire che col tempo sarebbe da essi sorto un intero genere, con tutta una serie di sottogeneri, di musica oltretombale e abrasiva.
Pure la copertina scelta per il disco, con le sue scritte grevi su sfondo nero, indica la voglia di esagerare di questa fase della carriera dei Sabbath, gruppo seminale come pochi altri nella storia del rock, che si ami oppure mal si sopporti il loro genere.