#TellMeRock, 21 marzo 1980: Nero a Metà, il Pino Daniele cittadino del mondo

EDITORIALE – Senza ombra di dubbio uno degli album più influenti della musica italiana. Un mix di sperimentazione, nuove sonorità e blues Mediterraneo che fa scuola.

Nero a metà, pubblicato il 21 Marzo del 1980, è l’album della definitiva maturazione ed affermazione a livello nazionale di Pino Daniele che – coadiuvato da ottimi musicisti della scena napoletana – crea un’opera sempre fresca anche nei brani che vanno al di fuori degli schemi allegramente blueseggianti cui il pubblico del cantautore partenopeo era ampiamente abituato.

Come si può leggere nelle note di copertina, l’album è dedicato al cantante degli Showmen Mario Musella, scomparso poco prima della pubblicazione del disco, definito da Pino Daniele “Nero a metà” in quanto figlio di madre napoletana e di padre nativo americano (in Italia per via della guerra).

L’album vendette oltre 300 000 copie ed è presente nella classifica dei 100 dischi italiani più belli di sempre secondo Rolling Stone Italia alla posizione numero 17.

Ad affiancarlo in questa raffinata opera, alcuni dei musicisti di maggior talento della scena musicale nazionale: James Senese al sassofono, Gigi De Rienzo e Aldo Mercurio al basso, Rosario Jermano alle percussioni, Agostino Marangolo e Mauro Spina alla batteria, Ernesto Vitolo alle tastiere, Tony Cercola e Karl Potter alle percussioni, Bruno De Filippi all’armonica ed un certo Enzo Avitabile ai cori. Il risultato? Una miscela di classe e di poesia, impreziosita dalle doti chitarristiche e canore dello stesso Pino Daniele.

L’artista rinnova il suo impegno nei confronti della canzone partenopea, per interi decenni relegata strettamente all’opera e al bel canto, trovando nuove soluzioni per certi versi rivoluzionarie, rileggendo sonorità di matrice statunitense pur rispettando la tradizione classica del nostro Paese, assimilando e mescolando il linguaggio tipico del jazz alla nostra bella melodia, tra i primi ad aver avuto questa lungimirante intuizione.

Lo splendido prologo di questa storia I say i’ sto ccà, un blues minore che seduce con note funky e testo in anglo-napoletano. Un inno rabbioso che tenta di mettere ordine in mezzo a “tutto sto burdello che ca cè sta”, sostenuto dal suono dirompente dell’armonica, quasi dovesse iniziare un conflitto tra note.

Note che sanno farsi travolgere dall’incedere ruvido di una dichiarazione d’amore (e d’intenti) come avviene in Musica musica, funk dal brio coinvolgente con un folle assolo di batteria e un attacco diretto alla casta politica, “adesso vuoi una sedia ma un sedia elettorale”, contro la quale continuare a opporsi con la musica, qui arma di difesa.

La grazia e la potenza che contraddistinguono l’arte di Pino Daniele trovano un approdo felicissimo in Quanno chiove, ballata in napoletano, per chitarra e sassofono (l’armonia bizantina nell’assolo di Senese resta una delle vette più alte della tradizione); la pulsazione di una malinconia analogica ed eterna, qualcosa che non potrà mai suonare schiavo del tempo. Un’impressione più che una canzone, che smuove a ogni ascolto, nel suo essere sognante e terrena, e con un inciso “e aspietta che chiove l’acqua te ‘nfonne e va tanto l’aria s’adda cagna’” che sembra teneramente rendere omaggio al De Filippo di “adda passa’ ‘a nuttata”. Quant’è struggente la catarsi liberatoria di un brano che celebra la rinascita, il cambiare se stessi, il mescolare il proprio vissuto a quello di altri. Si attende l’acqua, portatrice di purezza e rinascita, ad aspettare che la forma delle cose cambi dopo il passaggio di una pioggia salvifica, un fantasma risolutore e rivelatore mentre il groove spazzolato della batteria incornicia un pezzo di storia della musica italiana. Daniele leviga i brani tra arpeggi e sonorità più etniche e mediterranee con un andamento quasi sassofonistico del fraseggio chitarristico.

E decide di dipingere un immaginario che appare insolito per la città sempre pervasa dalla luce del sole (non a caso elemento che chiude il disco), regalando uno squarcio malinconico delle ore più illusorie, pronti a fare i conti, sulla soglia di un giorno nuovo, con l’ennesimo guaio. Come quello che, nel blues-rock urbano di Puozze passà nu guaio, esperimento pseudo-reggae, compare sotto le vesti di una dipendenza che attanaglia assolutizzante, o, più superficialmente, sotto le vesti dell’amata che è fuggita via, lasciando dietro di sé una solo dolore.

Lo stesso, forse, che investe il lamento armonioso di Voglio di più, fotografia color seppia di tutte le contraddizioni di una città che troppo spesso non si cura del proprio futuro. La chitarra di Daniele assume una voce, un tono, una cadenza, è come se piangesse. Un confessionale intenso per un ragazzo di 25 anni che, in quel Sud dove il caldo t’ammazza, ha visto “morire bambini nati sotto un accento sbagliato”. E con quel suo cantato tachicardico, quasi afono, trova la narrazione perfetta per raccontare un mondo che, citando Vittorini, si potrebbe riassumere laconicamente in uomini e no. Lo stesso no che Daniele si dice sempre pronto a rimarcare, continuando a cercare il meglio, per se stesso e per la città: “Ma voglio di più di quello che vedi, voglio di più di questi anni amari, sai che non striscerò per farmi valere, vivrò così cercando un senso anche per te”. C’è l’orgoglio e la rabbia, il dolore e l’agitazione in questo maestoso blues del Vesuvio. E la bocca del cratere assieme ai borbottii delle sue viscere sembra fissare il suono di un Mediterraneo che palesa tutta la propria ricchezza.

Con Appocundria i profumi latini incontrano il respiro della tradizione popolare – tra percussioni tarantellate e chitarra flamenco – per un brano in dialetto che traccia l’immortalità e l’universalità della lingua napoletana. Un moto dell’animo, una sensazione di mancanza che potrebbe essere sorella del duende di Garcia Lorca o della saudade dei portoghesi, quell’attimo inesplicabile di vuoto e potere, un mistero che tutti sentiamo e nessuno è ancora riuscito ad analizzare compiutamente. La stessa “appucundria che ssaglie” cantata, 40 anni dopo dai Nu Guinea in una operazione di melting pot e groove impeccabile, e che nel 2015 ha fatto il suo ingresso nell’enciclopedia Treccani.

E il dialetto torna nel manifesto di A me me piace ‘o blues, un blues muscolare debordante e programmatico, in pieno stile B.B. King, ballabilissimo grazie a sonorità più funky; una boutade che in virtù della propria natura scherzosa, può dire tutto. Qui la musica si trasforma in valvola di sfogo, una liberazione che esorta a resistere. Daniele dirà che il brano racconta anche “l’attitudine a cercare e trovare d’istinto sempre e comunque il proprio tornaconto, dai grandi affari o business fino alle schermaglie meschine per chi deve pagare il pranzo o il caffè”, la cazzimma insomma.

La stessa cazzimma che può servire a sopravvivere, soprattutto quando manca l’amore, quel potere sacro che Pino riesce a invocare anche con un filo di voce tanta è il magma che si muove in quel cuore pazzo; come nella rumba languida di E so’ cuntento ‘e sta che profuma di bossa, mare e ammaliante innocenza. La tenerezza investe anche Alleria, ballata in cui pianoforte e basso dipingono una promenade espressionista di colori e umori votati alla nostalgia crooner di un sentimento perduto.

https://youtu.be/qL8fIUe6PoY

Accanto alla dolcezza più commovente e mai leziosa, il cantautore partenopeo sa essere estremamente corrosivo, maestro di ironia e satira: è il caso del blues mississipiano Nun me scoccia’, filippica contro moralisti e intellettualoidi privi di concretezza, che vive di una linea armonica classica sostenuta però da un cantato sovversivo. È inoltre il brano in cui troviamo la talk box, strumento – scoperto grazie a Peter Frampton – per il quale aveva letteralmente perso la testa facendoselo arrivare dall’Inghilterra (su questo strumento nel 1978 aveva basato la creatura Alex Thoromp, giacca da indiano e cappello da cowboy, alter ego un po’ Santana dei Quartieri Spagnoli, progetto che non convinse mai i discografici e resta vivo nella memoria di chi quegli anni li ha vissuti accanto a Pino).

https://youtu.be/r5h00P1Yzoc

In direzione d’arrivo si tirano le somme, lo si fa A testa in giù, consapevoli di poche cose, insoddisfatti di troppe. Ma con quella rivelazione funky “e tutta la tua vita sai di essere un nero a metà”, Pino ha già detto tutto con voce pulsante e creativa.

Il rifugio sicuro lo si trova Sotto ‘o sole, capace di celebrare l’arte dell’incontro, tra bossanova e jazz, guardando a quel Sud che vuol dire anche samba, rumba, salsa. È sempre così con Pino Daniele, un occhio a Napoli e uno al resto del mondo. A quella world music che qualche anno più tardi Peter Gabriel diffonderà con successo, assieme all’idea di scavare a fondo nella memoria dialettale e quasi filologica della tradizione: basti pensare a De Andrè che nel 1984 pubblica Crêuza de mä, ispirato proprio da questi venti multiculturali, dai porti, semanticamente, sempre aperti. Un porto in cui Pino Daniele aveva messo gli ormeggi prima di tutti.

Senza mutilare le proprie radici, Nero a metà affronta le sfide del futuro, ponendosi costantemente in uno stato di confronto, con quell’approccio glocal, a metà strada tra il Vesuvio e Chicago. Daniele smaschera le contraddizioni di una terra tanto affascinante quanto deturpata, sospesa tra l’Atlantico e il Mediterraneo. O’ guaglione d’ò blues svecchia la canzone napoletana come nessuno mai, vivendo lo stesso smarrimento di fronte alla realtà che coglie ogni generazione della Storia, con il candore di un uomo che trionfa nel mettere giù parole con la stesso ritmo con cui respira, la distorsione meticcia che crea e governa le emozioni. Questa è una storia che attraversa il tempo senza mai perdersi e dove Napoli diventa uno spazio all’interno del quale mescolare disincanto, sopravvivenza, radici ed espatrio, fierezza e contaminazione.

La scia dei pomeriggi primaverili trascolora ormai senza sosta mentre Pino Daniele svolta in un vicolo cieco e in salita, tre lampioni brillano fiochi. La chitarra in spalla, i calli alle dita, l’inseparabile giubbotto di renna, il passo sicuro di chi conosce quei bassi, e svanisce sotto l’arco barocco di un palazzo, mentre la qualità della storia e la qualità del tempo di questo giovane uomo finiscono con il coincidere